I viaggiatori ne ebbero una prima visione dalla strada sopraelevata che attraversava di slancio, come una sassata, il delta del fiume Nóy, il quale si divideva in dodici tronchi turbolenti di schiuma bianca prima di gettarsi nel mare. Era mattina presto quando arrivarono, e la nebbia sul fiume sembrava cospirare con la luce incerta dell'alba per ritardare il rivelarsi della città, finché il terreno non le giunse così vicino che, quando la nebbia si dissolse, il cielo si ridusse a una striscia, deserto e mare divennero poco più che inesistenti e tutto il mondo, improvvisamente, fu Yzordderrex.

Mentre percorrevano la via di Lenten, passando dal Terzo al Secondo Dominio, Huzzah aveva recitato tutto quello che aveva letto, riguardo alla città, sui libri del padre. Uno degli autori aveva descritto Yzordderrex come un dio, e Gentle, finché non la vide, pensò che un paragone del genere fosse semplicemente ridicolo. Ma, quando la vide, capì che cosa avesse voluto intendere quel teologo urbano quando aveva deificato quel termitaio. Yzordderrex era davvero degna di adorazione e milioni di persone eseguivano quotidianamente quel supremo atto di culto. Le loro dimore si arrampicavano come un milione di scalatori terrorizzati sulle pendici che circondavano il porto e se ne stavano lì, aggrappate agli altopiani che si susseguivano, a terrazze, verso la sommità, alcuni tanto affollati di case che le costruzioni più vicine al ciglio dovevano essere sostenute dal basso e quegli stessi sostegni brulicavano di nidi ricolmi di vita.

Ovunque sulla montagna formicolava la vita: le strade erano scale, mortalmente ripide, che guidavano l'occhio da una terrazza vacillante a quella successiva: dai viali privi di alberi su cui s'allineavano eleganti palazzi, ai cancelli che menavano a ombrosi patii, su su fino alle sei cime della città sulla più alta delle quali troneggiava il palazzo dell'Autarca dell'Imagica. E lì regnava una ben diversa abbondanza, dato che il palazzo aveva più cupole e torri della stessa Roma e la sua complessa architettura era visibile anche a grande distanza. Al di sopra di tutte, la Torre del Cardine, semplice quanto le altre erano barocche. E ancora più in alto, appesa al cielo bianco che sovrastava la città, la Cometa che governava i lunghi giorni e le languide notti del Dominio: la stella di Yzordderrex, chiamata Giess, Colei che fa inaridire.

I viaggiatori si fermarono per un minuto ad ammirare quella vista. L'intenso viavai dei lavoratori che, non avendo trovato casa sul retro o nelle viscere della città, vi entravano e ne uscivano ogni giorno, era già iniziato e, nel tempo che occorse ai nuovi arrivati per raggiungere l'altro capo della soprelevata, la confusione polverosa dei veicoli, delle biciclette, dei risciò e dei pedoni che tentavano di farsi largo per le strade di Yzordderrex li inghiottì. Erano in tre in mezzo a decine di migliaia di altre persone. Una bambina magra con un ampio sorriso sulle labbra; un uomo bianco, che forse una volta era stato attraente, ma che adesso sembrava malaticcio, il volto esangue seminascosto da un'incolta barba castana; e un mystif Eurthemec i cui occhi, come in tutti quelli della sua specie, nascondevano a stento un'intima pena. La folla li spingeva in avanti e il gruppetto si lasciava trasportare senza opporre alcuna resistenza verso il luogo in cui innumerevoli moltitudini si erano già incontrate: le viscere della città-dio di Yzordderrex.

 

30

 

I

 

Dopo l'omicidio di Clara Leash, Dowd riportò Judith a casa Godolphin. Non era più una persona libera, ma una prigioniera. La rinchiuse nella stanza che le era stata assegnata al suo arrivo in attesa del ritorno di Oscar. Questi andò da lei dopo aver parlato per una mezz'ora circa con Dowd (Judith riuscì a sentire le loro voci ma non il contenuto del loro dialogo), e le disse subito che non aveva intenzione di discutere quanto era accaduto. Judith aveva agito contro gli interessi del suo uomo che erano, in ultima analisi, anche i propri - non l'aveva ancora capito? - e quindi lui aveva bisogno di tempo per riflettere sulle conseguenze che ne derivavano per entrambi.

"Avevo fiducia in te," disse. "Più di quanta ne abbia mai avuta in qualsiasi altra donna della mia vita. Mi hai tradito, proprio come aveva previsto Dowd. Mi sento un idiota e mi sento ferito."

"Lascia che ti spieghi..." lo interruppe Judith.

Oscar alzò le mani per farla tacere. "Non voglio ascoltare," disse. "Forse tra qualche giorno, ma non adesso."

Il senso d'abbandono che Judith provò quando Oscar uscì dalla stanza fu comunque inferiore alla collera per il modo in cui l'aveva lasciata. Credeva forse che i suoi sentimenti nei confronti di lui fossero così superficiali, che non si fosse posta il problema delle eventuali conseguenze per entrambi delle sue azioni? O peggio: Dowd l'aveva forse convinto che lei aveva avuto l'intenzione di tradirlo sin dall'inizio e che aveva calcolato tutto quanto - la seduzione, gli attestati della sua devozione - solo ed esclusivamente per renderlo vulnerabile? Quest'ultima ipotesi era la più probabile, ma non scagionava certo Oscar. Non le aveva ancora dato nemmeno una possibilità di giustificarsi.

Non lo vide per tre giorni. Dowd le portava il cibo in camera e 11 ella rimase a lungo, a sentire i rumori di Oscar che andava e veniva e captando di tanto in tanto sprazzi di conversazione sulle scale, sufficienti a darle l'impressione che, nella Tabula Rasa, l'epurazione fosse giunta a un punto critico. Più di una volta prese in considerazione l'eventualità che quanto era stata sul punto di fare con Clara Leash l'avesse trasformata in una vittima potenziale e che giorno dopo giorno Dowd cercasse di indebolire le resistenze che Oscar opponeva all'idea di ucciderla. Forse erano soltanto fissazioni; ma se Oscar provava ancora qualcosa per lei, perché non andava a trovarla? Non la desiderava come lei desiderava lui? Non la voleva nel suo letto anche solo per il suo calore animale, lasciando da parte ogni altra considerazione? Continuava a chiedere a Dowd di riferire a Oscar che aveva bisogno di parlargli, e Dowd - che affettava il distacco del carceriere che abbia a che fare ogni giorno con un migliaio di altri prigionieri - le rispondeva che avrebbe fatto del suo meglio, anche se dubitava che il signor Godolphin avesse la sia pur minima intenzione di intrattenersi con lei. Certo è che, gli fossero giunti o no i messaggi di Judith, Oscar la lasciò sola nella sua prigione finché lei non si rese conto che, se non avesse tentato qualcosa di più risoluto, probabilmente non avrebbe più rivisto la luce del sole.

Elaborò dunque un semplice piano di fuga. Forzò la serratura della porta della camera con un coltello che aveva sottratto alla fine di un pasto - non era stata tanto la serratura a frenarla fino a quel momento, quanto il monito di Dowd che, se avesse provato a squagliarsela, le graziose bestiole che avevano ucciso Clara avrebbero divorato anche lei - e sgattaiolò sul pianerottolo. Aveva volutamente atteso il rientro di Oscar per decidersi ad agire, convinta, forse ingenuamente, che nonostante la sua ostentata indifferenza Oscar l'avrebbe protetta da Dowd se quest'ultimo avesse messo a repentaglio la sua vita. Era molto tentata di andare a cercare Godolphin, ma poi pensò che forse sarebbe stato più semplice parlargli una volta uscita da quella casa, e si sentì molto più padrona del proprio destino. Se, una volta in salvo e lontana da quella casa, Oscar avesse deciso di non aver più nessun tipo di contatto con lei, il sospetto che fosse stato Dowd ad aizzarlo irreparabilmente contro di lei avrebbe trovato conferma, e lei allora avrebbe dovuto cercare un altro modo per arrivare a Yzordderrex.

Scese le scale con grande cautela e, udendo voci provenire dal fronte della casa, decise di uscire dalla porta della cucina. Le luci erano tutte accese, come al solito. In cucina non c'era nessuno. Andò velocemente verso la porta che era chiusa da due serrature e tentò di aprirla cominciando dalla serratura in basso. In quel momento Dowd disse: "Non riuscirai a fuggire di lì."

Judith si voltò e lo vide accanto al tavolo della cucina, un vassoio con le stoviglie per la cena in mano. Valutata la propria posizione e condizione, Judith pensò di poter essere più veloce di lui e si precipitò verso il corridoio. Dowd, però, si mosse con rapidità sorprendente, posò il vassoio e la bloccò. Jude, per sfuggirgli, dovette retrocedere. La mano urtò un bicchiere che cadde e si ruppe con un tintinnio musicale.

"Guarda cosa hai fatto," la rimproverò Dowd con un tono che pareva di autentico dispiacere. Poi andò verso i cocci di vetro e si chinò a raccoglierli. "Questi bicchieri sono stati per generazioni patrimonio della famiglia. Credevo che avresti avuto un po' più di riguardo."

Sebbene non fosse assolutamente dell'umore adatto per parlare di bicchieri rotti, Jude rispose comunque, conscia che l'unica speranza rimasta era che Godolphin si accorgesse della sua presenza.

"Perché mai mi dovrebbe importare di un bicchiere?" urlò.

Dowd prese un pezzo di vetro e lo alzò verso la luce.

"Avete tante cose in comune, tesoro," disse. "Entrambi fatti nella più completa ignoranza di voi stessi. Belli, ma fragili." Si alzò in piedi. "Tu sei sempre stata bella. Le mode vanno e vengono, ma Judith rimane sempre bella."

"Ma se non sai un cacchio di me!" esclamò.

Dowd posò i cocci di vetro sul tavolo, accanto agli altri piatti e posate sporchi.

"Oh, sì, invece," le rispose. "Siamo molto più simili di quanto tu non creda."

Mentre parlava, teneva in mano un pezzo di vetro smerigliato. Se lo avvicinò al polso. Judith ebbe appena il tempo di intuire che cosa Dowd avesse intenzione di fare che lui si era già incisa la carne. La donna si voltò, ma poi - sentendo il rumore del pezzo di vetro che veniva gettato nell'immondizia - tornò a girarsi. Vide una ferita aperta, ma non ne fuoriusciva sangue, bensì un liquido simile a una linfa salmastra. Pareva che Dowd non sentisse alcun dolore, che fosse semplicemente assorto.

"Tu hai ricordi vaghissimi del passato," disse. "Io ne ho fin troppi. Tu hai del calore in te. Io no. Tu sei innamorata. Io non ho mai capito neppure il significato del termine. Ma, Judith: noi siamo uguali. Entrambi schiavi."

Judith spostò lo sguardo dal viso di Dowd alla ferita, al viso, alla ferita e ancora al viso, e sentì il panico crescere in lei a ogni occhiata. Lo disprezzava. Chiuse gli occhi e con il pensiero lo condannò al rogo degli evacuatori, augurandogli di morire soffocato dalle sue bestie all'ombra della Torre, ma per quanti orrori gli augurasse non riusciva a dimenticare le sue parole. Erano anni che aveva smesso di cercare risposte alle grandi domande che si era posta su se stessa, ma ecco che Dowd le lanciava dei segnali che non poteva ignorare.

"Chi sei?" gli chiese.

"In realtà il punto è: chi sei tu."

"Non siamo uguali," rispose Judith. "Assolutamente no. Io sanguino. Tu no. Io sono un essere umano. Tu no."

"Ma è tuo il sangue che hai nelle vene? Te lo sei mai chiesto?" insinuò Dowd.

"Scorre nelle mie vene e perciò è mio."

"E allora chi sei?" ripeté Dowd.

La domanda era stata formulata senza apparente malizia, ma Judith non dubitava che nascondesse intenzioni provocatorie. In qualche modo Dowd sapeva che lei non ricordava il proprio passato, e la stava volutamente provocando per indurla a confessare.

"So quel che non sono," rispose Judith, cercando di guadagnare tempo per inventarsi una risposta plausibile. "Non sono un bicchiere. Non sono fragile né ignorante. E non sono nemmeno..." Qual era l'altra qualità che lui aveva citato, oltre alla bellezza e alla fragilità? Si era abbassato per raccogliere i pezzi di vetro e l'aveva descritta... ma come esattamente?

"Non sei che cosa?" incalzò Dowd, che la osservava lottare contro la sua stessa resistenza al ricordo.

Jude rammentava che Dowd aveva attraversato la cucina. Guarda che cosa hai fatto, le aveva detto. Poi si era chinato (rievocava tutto questo mentalmente) e, quando aveva iniziato a raccogliere i cocci, aveva pronunciato alcune parole che adesso, sì, adesso ricordava.

"Questi bicchieri sono stati per generazioni patrimonio della famiglia. Credevo che avresti avuto un po' più di riguardo," aveva detto.

"No," gridò Judith, e scosse la testa per impedire che il senso di tutto si congelasse lì. Ma il movimento servì solo a mettere in moto altri ricordi: la visita alla Proprietà con Charlie, quando si era ritrovata completamente immersa nella piacevole sensazione di appartenere a quel luogo e le voci l'avevano chiamata con dolci nomi dal passato; l'incontro con Oscar sulla soglia del Rifugio, quando s'era resa conto immediatamente di appartenergli, senza dover porre domande e senza il desiderio di porne; il ritratto sopra il letto di Oscar, che osservava i due amanti con uno sguardo così possessivo che lui aveva spento la luce prima che iniziassero a fare l'amore.

Mentre era immersa in questi pensieri, il movimento della testa divenne sempre più incontrollabile e sembrò trasformarsi in una convulsione. Judith si mise a piangere a dirotto. Le sue mani si tesero in cerca di aiuto anche se non aveva in gola la voce per chiederlo. Nella sua confusione riuscì a intravedere Dowd davanti a lei, vicino al tavolo, che si copriva la ferita con la mano e la osservava impassibile. Si allontanò da lui, terrorizzata dal fatto che, se fosse caduta e si fosse morsa la lingua o rotta la testa, Dowd non avrebbe mosso un dito per aiutarla. Voleva chiamare Oscar, ma non riuscì a emettere nient'altro che un suono soffocato simile a un gorgoglio. Si proiettò in avanti, la testa ancora scossa da movimenti incontrollati, e in quel momento vide che Oscar nel corridoio stava venendo verso di lei. Tese le braccia e sentì le mani dell'uomo su di lei che cercavano di impedirle di accasciarsi a terra, ma senza successo.

 

II

 

Quando Judith si risvegliò, trovò Oscar accanto a sé. Non era sdraiata nel lettuccio in cui era stata confinata le ultime notti ma nell'enorme letto a quattro piazze di Oscar, il letto che aveva creduto loro. Non era così, evidentemente. Il vero proprietario di quel letto era l'uomo la cui immagine le era apparsa negli spasmi delle convulsioni: il folle Lord Godolphin, che dominava dall'alto i cuscini su cui lei poggiava e che in una versione più recente sedeva accanto a lei accarezzandole la mano e confessandole quanto l'amava. Quando Judith tornò in sé e sentì quel tocco, ritrasse la mano.

"Non... non sono un cucciolo," borbottò. "Non puoi accarezzarmi solo quando... quando ti fa comodo," gli disse.

Oscar rimase esterrefatto. "Mi spiace infinitamente," le rispose in tono grave. "Non ho scuse. Ho lasciato che gli affari della Società prendessero il sopravvento sul mio desiderio di capirti e prendermi cura di te. Lo so, è imperdonabile. E poi Dowd, naturalmente, che mi diceva tutte quelle cose nell'orecchio... È stato tanto cattivo?"

"Tu sei stato cattivo."

"Non l'ho fatto con intenzione. Per favore, credi almeno a questo."

"Tu mi hai mentito sempre, in continuazione," disse Judith cercando di sollevarsi a sedere sul letto. "Tu sai su di me cose che io non so. Perché non me le hai dette? Non sono una bambina."

"Hai appena avuto un attacco di convulsioni," riprese Oscar. "Ne hai mai avute prima?"

"No."

"Vedi, alcune cose sarebbe meglio lasciarle a se stesse."

"Troppo tardi," aggiunse Judith. "Ho avuto queste convulsioni ma sono sopravvissuta. Ora sono pronta ad ascoltare il segreto, qualunque esso sia." Alzò gli occhi verso Joshua. "Ha qualcosa a che fare con lui, non è vero? Ti tiene in pugno."

"Non me..."

"Bugiardo! Bugiardo!" gridò Jude, spostando le lenzuola e mettendosi in ginocchio così da trovarsi a faccia a faccia con chi l'aveva ingannata. "Perché mi dici che mi ami e un momento dopo mi menti spudoratamente? Perché non ti fidi di me?"

"Ti ho confidato cose che non ho mai detto a nessuno. Ma poi ho scoperto che avevi complottato contro la Società," rispose Oscar.

"E stato più di un semplice complotto," disse Judith tornando con la mente alla visita nelle cantine della Torre.

Ancora una volta era tentata di rivelargli che cosa aveva visto, ma il monito di Clara glielo impedì. Non puoi salvare Celestine e conservare l'amore di lui, aveva detto, perché stai minando le fondamenta della sua fede e della sua famiglia. Era vero. Se ne rendeva conto, ora più che mai. E se gli avesse raccontato tutto quello che sapeva, per quanto piacevole potesse essere scaricarsi di quel fardello, come faceva a essere sicura che Oscar non avrebbe sfruttato la sua storia, usando quelle informazioni contro di lei? E a che cosa sarebbero servite, allora, la morte di Clara e le sofferenze di Celestine? Lei era adesso l'unica persona a rappresentare un contatto tra loro e il mondo dei vivi e non aveva alcun diritto di giocare d'azzardo con il loro sacrificio.

"Che cosa hai fatto oltre a complottare?" le chiese Oscar. "Che cosa hai fatto?"

"Tu non sei stato onesto con me," rispose Judith. "Perché, allora, dovrei fidarmi di te?"

"Perché ti posso ancora portare a Yzordderrex," rispose Oscar.

"Cos'è, un ricatto?"

"Non ci vuoi più andare?"

"Adesso, più di ogni altra cosa, voglio sapere la verità su di me."

Oscar sembrò rattristarsi alla risposta. "Ah..." sospirò. "Ho raccontato bugie per così tanto tempo che non sono più sicuro che saprei riconoscere la verità neanche se ci inciampassi sopra. Eccetto..."

"Sì?"

"Per quello che sentiamo l'uno per l'altra..." mormorò Oscar. "O, per lo meno, per quello che io provo per te... quello era vero, non credi?"

"Non lo può essere più di tanto," rispose Judith. "Mi hai fatto rinchiudere. Mi hai abbandonata nelle mani di Dowd..."

"Ti ho già spiegato..."

"Sì, eri distratto. Avevi altro a cui pensare. E allora ti sei dimenticato di me."

"No," protestò vivamente Oscar. "Non ti ho mai dimenticata. Mai, te lo giuro."

"Che cosa, allora?"

"Avevo paura."

"Di me?"

"Di tutto. Di te, di Dowd, della Società. Ho iniziato a vedere complotti ovunque. E improvvisamente il fatto che tu fossi nel mio letto mi è sembrato un rischio troppo grande. Avevo paura che mi potessi soffocare o..."

"È semplicemente ridicolo," affermò Judith.

"Ah sì? Come faccio a sapere con chi stai?" le chiese Oscar.

"Io sto con me stessa," rispose Judith.

Oscar scosse il capo, mentre con lo sguardo andava dal viso di Jude al ritratto di Joshua Godolphin appeso sopra il letto.

"Come fai a esserne certa?" riprese. "Come fai a essere sicura che quello che provi per me viene direttamente dal tuo cuore?"

"Ma che importa da dove viene? C'è, esiste. Guardami."

Oscar non obbedì e rimase con lo sguardo fisso sul folle Lord.

"È morto," disse Judith.

"Ma la sua eredità..." obiettò Oscar.

"Al diavolo la sua eredità!" esclamò Jude, e in un batter d'occhio balzò in piedi, afferrò il quadro per la cornice dorata e lo staccò dalla parete.

Oscar si alzò per protestare, ma la determinazione di lei ebbe la meglio. Il quadro si staccò dai ganci con un solo strappo e volò in mezzo alla stanza. Poi Judith si risedette sul letto di fronte a Oscar.

"È morto, se n'è andato," disse. "Non ci può più giudicare. Non ci può più controllare. Tutto ciò che proviamo l'uno per l'altra... è affar nostro." Judith allungò le mani sul viso di Oscar e intrecciò le dita nella barba di lui. "Lascia andare le paure," gli sussurrò. "E prendi me al posto loro."

Oscar l'abbracciò.

"Mi porterai a Yzordderrex, Oscar. Non fra una settimana, né fra qualche giorno ma domani. Voglio andarci domani. Altrimenti..." Ritrasse le mani. "Altrimenti lasciami andare ora. Via di qui. Fuori dalla tua vita. Non sarò tua prigioniera, Oscar. Forse le sue amanti lo accettavano, ma io no. Dovrai passare sul mio cadavere prima di riuscire a rinchiudermi di nuovo."

Judith disse tutto questo con determinazione e fermezza. Sentimenti semplici espressi in modo altrettanto semplice. Oscar le prese le mani e le riportò sulle proprie guance come per invitarla a possederlo. Il viso di Oscar era pieno di piccole rughe che Judith non aveva mai notato prima d'ora. E tra quelle pieghe adesso scorrevano copiose le lacrime.

"Andremo domani," le promise.

 

III

 

Quando lasciarono Londra, il giorno dopo, sulla città cadeva una pioggerellina lieve, ma allorché arrivarono alla Proprietà il sole già faceva capolino e il parco risplendeva di luce. Non fecero deviazioni e andarono dritti al boschetto che nascondeva il Rifugio. Tra i rami soffiava una brezza che faceva tremolare le foglie leggere. Ovunque si sentiva l'odore della vita, che acuiva nel sangue di Jude la tensione per il viaggio.

Oscar le aveva raccomandato di indossare indumenti pratici e caldi. La città, disse, era soggetta a sbalzi di temperatura repentini e radicali che dipendevano dalla direzione del vento. Se il vento soffiava dal deserto, il calore nelle strade poteva addirittura cuocere i corpi come pane azzimo. Se girava e soffiava, invece, dall'oceano, allora portava nebbie gelide e improvvise gelate. Judith era pronta a quell'avventura come mai nella sua vita.

"So che ti ho già ripetuto un milione di volte quanto pericolosa sia diventata quella città," disse Oscar piegandosi per passare sotto i rami più bassi. "E so che sei anche stufa di sentirmelo dire, ma ricorda, Judith, che quella non è una città civile. L'unico uomo di cui mi fido si chiama Peccable. Se, per qualsiasi ragione, ci dovessimo separare - o se mi succedesse qualcosa - puoi andare da lui a chiedergli aiuto."

"Capisco."

Oscar indugiò ad ammirare la scena suggestiva che si dispiegava davanti ai suoi occhi - la luce del sole che si rifrangeva sui muri chiari e sulla cupola del Rifugio. "Sai, venivo qui solo di notte," disse. "Pensavo che fosse l'ora sacra, l'ora in cui la magia esercitava più energicamente la sua presa. Ma non è vero. Le messe di mezzanotte e la luce della luna sono belle cose, ma esattamente come lo sono i miracoli che si compiono alla luce del giorno: altrettanto intensi e altrettanto strani." Guardò in alto, nell'intreccio dei rami. "A volte è necessario andare via dal mondo per vedere il mondo," aggiunse. "Sono stato a Yzordderrex alcuni anni fa e vi sono rimasto... oh, non ricordo, due mesi, no, forse due mesi e mezzo... e quando sono ritornato al Quinto, l'ho rivisto con gli occhi di un bambino. Te lo giuro, con gli occhi di un bambino. Questo viaggio non ti permetterà soltanto di vedere altri Domini. Se ritorneremo sani e salvi..."

"Certo che ritorneremo."

"Sei ottimista. Se ritorneremo, questo mondo sarà diverso. Tutto cambierà, perché tu sarai cambiata."

"Allora sia!" esclamò Judith.

Judith prese la mano di Oscar e insieme si incamminarono verso il Rifugio. C'era però qualcosa che la faceva sentire a disagio. Non tanto le parole di Oscar - anzi, ciò che aveva detto sul cambiamento la eccitava - quanto, forse, il silenzio tra di loro che, all'improvviso, era diventato grave.

"C'è qualcosa che non va?" chiese Oscar avvertendo la tensione.

"Il silenzio..." rispose Judith.

"C'è sempre stata un'atmosfera strana qui. L'ho già provata altre volte. D'altronde qui sono morte molte anime innocenti."

"Durante la Riconciliazione?"

"Sai già tutto, non è vero?"

"Me ne ha parlato Clara. È stato duecento anni fa in piena estate, come ora, mi ha detto. Forse gli spiriti stanno tornando per vedere se qualcuno ci vuole riprovare."

Oscar si fermò e le strisé forte il gomito. "Su questo argomento non voglio più né una parola né un gesto. Te ne prego. Non ci sarà Riconciliazione né adesso né mai. I Maestri sono morti. Chiuso l'argomento..."

"Va bene, va bene," si affrettò a dire Judith. "Calmati adesso, non ne parlerò più."

"Passata l'estate, tutto questo diventerà una pura speculazione accademica," aggiunse Oscar con affettata noncuranza. "Almeno per un altro paio di secoli. Io sarò morto e sepolto già da tempo prima che qualcosa del genere possa riaccadere. Anch'io ho il mio complotto, sai? L'ho preparato con Peccable. E sul bordo del deserto con una bella vista su Yzordderrex."

Finché non raggiunsero la porta, Oscar continuò a disturbare la quiete del luogo con il suo blaterare nervoso; alla porta smise. Judith ne fu contenta. Il luogo meritava maggiore rispetto. Fin dalla soglia non era difficile credere che vi si potessero incontrare dei fantasmi: e che persone morte da secoli si mescolassero con quelle di cui lei aveva visto proprio lì gli ultimi attimi di vita. Charlie, per esempio, che cercava in tutti i modi di persuaderla dicendole con un sorriso che quel luogo non aveva nulla di speciale, che era solo un ammasso di pietre; e anche gli evacuatori - uno bruciato, un altro scuoiato, fantasmi presenti sulla soglia.

"A meno che tu non scorga qualche impedimento," le disse Oscar, "penso che potremmo cominciare."

L'uomo la spinse verso il centro del mosaico.

"Quando arriverà il momento, dobbiamo tenerci stretti," disse. "Anche se ti sembrerà che non ci sia niente cui attaccarti, non preoccuparti: c'è. È solo cambiato per un momento. Non ti voglio perdere per strada. L'In Ovo non è un luogo dove sia piacevole andare a spasso."

"Non mi perderai," lo rassicurò Judith.

Oscar si piegò sulle ginocchia e scavò nel mosaico, rimuovendo dal disegno una decina di tessere di pietra piramidali della dimensione dei due pugni, fatte in modo da passare praticamente inosservate quando erano al loro posto.

"Non riesco a comprendere bene il meccanismo che ci trasporterà," disse mentre s'affaccendava. "E non sono nemmeno sicuro che ci sia qualcuno in grado di capirlo completamente. Ma, secondo Peccable, esiste una forma di linguaggio comune in cui tutti possiamo essere tradotti. E tutti i processi di magia comportano questa traduzione." Oscar stava ponendo le pietre sul bordo di un cerchio, apparentemente in ordine arbitrario. "Una volta che materia e spirito parlano la stessa lingua, l'uno può influenzare l'altra in moltissimi modi. La carne e le ossa possono essere trasformati, trascesi..."

"... o trasportati?"

"Esatto."

Jude ricordava il modo in cui il passaggio di un viaggiatore da questo mondo a un altro appariva a un osservatore esterno: la carne si ripiegava su se stessa e il corpo si distorceva fino a diventare irriconoscibile.

"Fa male?" chiese Judith.

"Un po', all'inizio, ma non molto."

"Quando comincia?"

Oscar si alzò. "È già cominciato," le disse.

Jude si accorse che il cambiamento era iniziato proprio mentre Oscar pronunciava quelle parole: sentì una pressione nelle viscere e nella vescica; una stretta al petto che le tolse il respiro.

"Respira lentamente," le raccomandò Oscar, ponendole la mano sul petto. "Non opporre resistenza. Lasciati andare. Non c'è nulla da temere."

Judith guardò quella mano sul suo petto, poi andò con gli occhi sul cerchio che li circondava e infine, oltre il cerchio, vide la porta e l'esterno del Rifugio dove il sole illuminava l'erba a pochi passi da dove ora lei si trovava. Per quanto vicina fosse quell'erba, Judith non poteva più raggiungerla. Il treno su cui era salita stava accelerando. Era troppo tardi per i dubbi e per i ripensamenti. Era in trappola.

"Bene, così va bene," sentì Oscar dire, ma lei non avrebbe potuto certo dire lo stesso.

Sentiva un dolore acuto al ventre come se fosse stata avvelenata, un dolore alla testa e un prurito così profondo sotto la pelle che a nulla sarebbe valso grattarsi. Guardò Oscar. Anche lui pativa quelle stesse sofferenze? Se sì, allora le stava sopportando con forza ammirevole, dato che continuava a sorriderle come per rassicurarla.

"Passerà presto," diceva. "Resisti... passerà presto."

Oscar la strinse ancora di più a sé e in quel momento Judith avvertì un solletico che le attraversava le cellule, come un temporale che stesse per scoppiare dentro di lei attenuando il dolore.

"Meglio?" le chiese Oscar, una parola che era più una forma che un suono.

"Sì," rispose Judith accennando un sorriso e ponendo le labbra su quelle di lui. Chiuse gli occhi per il piacere, mentre le loro lingue si toccavano.

L'oscurità dietro le sue palpebre si illuminò improvvisamente di linee rifulgenti che cadevano come meteore nella sua immaginazione. Judith aprì gli occhi ma fu il suo cervello a sovrapporre al volto di Oscar una miriade di linee ancor più luminose. Decine di colori vivaci scorrevano sui solchi e sulle rughe della pelle di Oscar; altre decine avvolgevano la struttura delle ossa sottostanti; e altre decine ancora rendevano visibili nei più minuti dettagli le linee dei nervi e dei vasi sanguigni. Poi, come se la mente che ne stava interpretando l'essenza avesse condotto a termine la traduzione letterale e ora potesse passare alla versione poetica, le mappe stratificate della carne di Oscar si semplificarono. Ridondanze e ripetizioni furono cancellate, ed emersero forme così semplici e così assolute che la materia che incarnavano sembrò inconsistente al confronto e parve ritrarsi dinanzi a loro. A quello spettacolo, Judith ricordò il glifo che aveva immaginato quando lei e Oscar avevano fatto per la prima volta all'amore; la spirale e la curva del suo piacere proiettate sull'interno vellutato delle sue palpebre. Si stava riproducendo lo stesso processo, solo che la mente che adesso evocava quelle figure era la mente del cerchio, potenziata dalle pietre e dalla volontà dei viaggiatori in partenza.

Un movimento alla porta distolse momentaneamente Judith da quei pensieri. L'aria attorno a loro era forse sul punto di lasciar cadere il velo che copriva il segreto, ma la scena fuori del cerchio rimaneva ancora sfocata. Tuttavia c'era abbastanza colore nell'abito del nuovo venuto da permettere a Judith di riconoscere l'uomo che avanzava sulla soglia, per quanto non potesse vederne il viso. Chi, se non Dowd, poteva indossare un abito con quell'assurda tonalità albicocca? Judith pronunciò il suo nome e sebbene non riuscisse a emettere alcun suono, Oscar avverti ugualmente l'allarme di Judith e si voltò verso la porta.

Dowd si stava avvicinando al cerchio in gran fretta; le sue intenzioni erano evidenti: sfruttare a sua volta il passaggio per il Secondo Dominio. Jude aveva constatato proprio in quel luogo le funeste conseguenze che una simile interferenza poteva avere e si strinse a Oscar, in preda alla paura. Ma l'uomo, anziché affidarsi alla forza del cerchio in cui si trovavano per cacciare l'intruso, si staccò da Judith e si slanciò a colpire Dowd. Il flusso del cerchio moltiplicò la sua violenza e il glifo del corpo di Oscar divenne uno sgorbio illeggibile, i colori si offuscarono in un istante. Il dolore che Jude credeva d'aver superato ritornò più intenso. Cominciò a sanguinare dal naso e il sangue le entrò nella bocca aperta. La pelle cominciò a pruderie così violentemente che si sarebbe graffiata a sangue, se il dolore alle giunture non le avesse impedito di muoversi.

Non riuscì a comprendere lo scarabocchio che aveva di fronte finché i suoi occhi non incontrarono il viso di Oscar, maculato e scorticato, che urlava mentre cadeva fuori dal cerchio. Judith si allungò per riacciuffarlo nonostante il dolore intenso che le procurava ogni minimo movimento. Afferrò Oscar per un braccio: ovunque fosse destino che andassero, a Yzordderrex o all'inferno, ci sarebbero andati insieme. Judith sentì che lui reagiva alla sua stretta attaccandosi con tutte le forze alle braccia tese in suo aiuto, cercando di issarsi di nuovo sull'espresso in partenza. Ma, non appena la donna riuscì a intravedere il volto che si nascondeva dietro quel ghigno, si rese subito conto dell'errore che aveva commesso. Era Dowd quello che aveva aiutato a salire a bordo.

Judith lasciò la presa più per repulsione che per rabbia. La faccia di Dowd era orribilmente contorta, il sangue gli usciva dagli occhi, dalle orecchie, dal naso. Ma la mente del passaggio aveva già iniziato a lavorare su quel nuovo testo e si stava preparando a tradurlo e a trasportarlo. Judith non sapeva come fare per interrompere quel processo... e lasciare il cerchio adesso sarebbe stato un suicidio. Nonostante la vista offuscata e il buio che si faceva a mano a mano sempre più intenso, Jude riuscì a vedere Oscar alzarsi da terra e ringraziò le divinità che proteggevano quei cerchi per il fatto che, se non altro, lui fosse ancora vivo. Vide che Oscar stava cercando di rientrare nel cerchio come se avesse intenzione di sfruttare quel secondo flusso, ma poi, evidentemente, dovette pensare che il treno stesse procedendo a velocità troppo sostenuta, perché rallentò il passo e si portò le mani al viso in un gesto di resa. Ancora qualche secondo e l'intera scena scomparve, la luce del sole sulla soglia illuminò ancora il tutto per un battito di ciglia, poi anche quell'ultimo raggio di sole si dissolse nell'oscurità.

L'unica visione che Jude aveva ancora era la matrice delle linee che corrispondevano alla versione che il traduttore aveva completato del suo compagno di viaggio, Dowd; e sebbene lo disprezzasse con tutte le sue forze, non avendo altro punto di riferimento, Judith fissò lo sguardo su quelle linee. Non provava più nessuna sensazione fisica. Judith non sapeva se stava fluttuando, cadendo o semplicemente respirando, anche se sospettava che non stesse facendo nessuna di quelle cose. Era diventata un segno che veniva trasmesso tra i Domini. Quello che le si presentava davanti - il glifo luccicante di Dowd - non veniva confermato dagli occhi ma dal pensiero, sola valuta valida in quel viaggio. Ora, come se il potere d'acquisto di quella moneta stesse crescendo con l'aumentare della sicurezza, il vuoto intorno a Judith cominciò a riprendere forma. L'In Ovo, così Oscar aveva chiamato quel luogo. Le sue oscurità esplosero in un milione di punti, le sue superfici si tesero fino a diventare iridescenti per poi rompersi lasciando fuoriuscire altre forme gelatinose che, a loro volta, si gonfiarono e si ruppero come frutti i cui semi crescessero l'uno nell'altro e traessero nutrimento fino alla corruzione dal decadimento dei loro predecessori. Per schifoso che fosse quello spettacolo, il peggio doveva ancora venire. Apparvero nuove entità simili ai resti di un banchetto cannibalesco da cui fosse stato succhiato il sangue prima di venir rosicchiati; stupidi sfilacci di vita che non avrebbero potuto venir tradotti in nessuna forma materiale. Ma quelle entità, per quanto primitive, erano in grado di avvertire la presenza tra loro di forme di vita compiuta, e si alzarono per dirigersi verso i viaggiatori come dannati che vadano verso qualche angelo di passaggio. Arrivarono troppo tardi. I visitatori erano già andati oltre, e le tenebre, riaccolti nelle proprie viscere i loro abitatori, si ritirarono.

Jude poteva scorgere il corpo di Dowd nel mezzo del glifo ancora senza forma ma sempre più chiaro. A quella vista la sofferenza di quel trapasso riprese vigore, anche se non così intensamente come all'inizio del viaggio. Era una sofferenza che la rendeva contenta comunque, perché provava che i nervi erano ancora suoi e che il viaggio stava per terminare. Gli orrori dell'In Ovo erano quasi scomparsi interamente quando Judith sentì un calore crescente sul viso. Fu però l'odore che quella vampa risvegliava nelle sue narici a confermarle che ormai erano vicini alla città: una miscela di cose dolci e aspre già fiutata nel vento che era soffiato dal Rifugio molti mesi prima.

Judith vide Dowd sorridere, un sorriso che gli rompeva le croste di sangue coagulato che aveva sulle guance; un sorriso che si trasformò in aperta risata e risuonò tra le pareti della cantina del mercante Peccable, a mano a mano che questa diventava reale attorno a loro. Judith non avrebbe voluto condividere con lui quella gioia, men che meno dopo tutto quello che le aveva fatto, ma non poté trattenersi. Felice di essere uscita indenne da quel viaggio e di trovarsi infine lì dopo tanto tempo e tante peripezie, non riuscì più a trattenere il riso e, tra un singulto e l'altro, lasciò che l'aria del Secondo Dominio le penetrasse nei polmoni.

 

31

 

I

 

A un paio di chilometri dalla casa dove Jude e Dowd si stavano riempiendo i polmoni con l'aria di Yzordderrex, in direzione della montagna, l'Autarca dei Domini Riconciliati sedeva in una delle sue torri di vedetta e osservava la città che aveva spinto a tanti eccessi. Erano trascorsi tre giorni da quando era ritornato dal Palazzo di Kwem e quasi ogni ora era venuto qualcuno - la maggior parte delle volte Rosengarten - a portargli ulteriori notizie su episodi di rivolta, alcuni dei quali provenivano da regioni dell'Imagica in cui la parola stessa, "rivolta", era fino a quel momento quasi sconosciuta; altri più preoccupanti giungevano proprio da dietro le mura del Palazzo. Mentre meditava, masticava il kreauchee, una droga di cui era schiavo ormai da settant'anni. I suoi effetti collaterali erano gravi e inaspettati per chi non vi fosse abituato: periodi di letargia si alternavano ad attacchi di priapismo e ad allucinazioni psicotiche. Talvolta, le dita delle mani e dei piedi si gonfiavano fino a raggiungere dimensioni grottesche. L'Autarca, però, si era da tempo completamente assuefatto e la droga non aveva più alcun effetto né sul suo fisico né tanto meno sulle sue facoltà. In questo modo poteva godersi la sua azione anestetica senza doverne sopportare gli effetti collaterali.

O almeno, così era stato fino a poco tempo prima. Da un po' di tempo infatti, come se si fosse coalizzata con le forze che volevano distruggere il sogno che si stendeva ai suoi piedi, la droga non riusciva più a dargli il solito sollievo. Ne aveva ordinate nuove scorte mentre era nel suo ritiro di meditazione, là dove una volta si ergeva il Cardine ma, tornato a Yzordderrex, aveva scoperto che i suoi fornitori nel Kesparate Scoriae erano stati uccisi. Gli assassini erano probabilmente membri del Dearth, una setta di imbroglioni e rinnegati adoratori della Madonna, a quanto si diceva, che da anni tentavano di fomentare una rivoluzione ma che, fino a quel momento, erano sempre stati ritenuti una minaccia così irrisoria per lo status quo che l'Autarca li aveva lasciati fare per divertirsi alle loro spalle. I loro opuscoli - un miscuglio di fantasie di castrazione e pessima teologia - erano una lettura farsesca. Arrestato e imprigionato il loro capo, Athanasius, molti avevano trovato rifugio in un deserto ai confini con il Primo Dominio chiamato Annullamento, in cui la realtà solida e concreta del Secondo impallidiva e si dissolveva. Ma Athanasius, adesso, era fuggito di prigione ed era ritornato a Yzordderrex con nuove forze per organizzare la lotta. Il suo primo atto di rivolta, almeno così sembrava, era stato uccidere gli spacciatori di kreauchee. Un'azione di importanza limitata in apparenza, ma voluta da un uomo sufficientemente astuto da capire quali inconvenienti essa potesse causare. Era fuor di dubbio che la sua azione fosse stata presentata come atto di risanamento civile compiuto in nome della Madonna.

L'Autarca sputò il pezzo di kreauchee che stava masticando e lasciò la torre di vedetta per dirigersi, attraverso il labirinto monumentale del palazzo, nelle stanze di Quaisoir, sperando di poter rubare un po' delle sue scorte. A destra e a sinistra si aprivano corridoi tanto immensi che le voci vi si perdevano completamente; su ogni corridoio si affacciavano una decina di stanze tutte ben arredate, tutte altrettanto vuote, alcune delle quali avevano il soffitto così alto che spesso vi si formavano delle nuvole sottili. Sebbene i suoi sforzi architettonici avessero rappresentato per molto tempo la meraviglia dei Domini, la vastità della sua ambizione e delle sue conquiste sembravano adesso farsi beffe di lui. Aveva sprecato le sue energie in follie di quel genere quando, invece, avrebbe dovuto preoccuparsi delle ondate di paura che la fondazione del suo impero aveva scatenato per tutta l'Imagica. Non erano i pogrom che aveva fomentato a procurargli tutti quei problemi, almeno a detta dei suoi consiglieri. Il tumulto attuale era conseguenza dei cambiamenti meno violenti nella struttura dei Domini, uno dei quali - forse il più importante - era stato la fondazione di Yzordderrex e delle città limitrofe. Tutti gli occhi della gente si erano puntati sulle glorie sgargianti di quelle città, e un nuovo tempio era stato costruito per le tribù e le comunità che da un pezzo avevano perso la fede nelle divinità della roccia e dell'albero. Centinaia di migliaia di contadini avevano abbandonato i territori tormentati dalle tempeste di polvere per godere del miracolo, col solo risultato di coltivare . la loro invidia e la loro disperazione in posti squallidi come Vanaeph. I consiglieri dissero che ciò era tipico dei rivoluzionari: vivere non per gli ideali, ma per sfogare la frustrazione e la rabbia. Poi c'erano quelli che credevano di poter trarre profitto dall'anarchia, come quella nuova specie di nomadi che stavano rendendo impraticabile gran parte della via di Lenten: banditi pazzi e spietati che si crogiolavano nella propria triste fama. E, infine, c'erano i nuovi ricchi, le dinastie nate dal boom consumistico che aveva accompagnato la crescita di Yzordderrex. All'inizio tutti costoro si erano ripetutamente rivolti al governo per chiedere protezione contro i nuovi poveri. Ma l'Autarca era troppo impegnato nella costruzione del proprio palazzo e si era rifiutato di aiutarli. Per questo le famiglie ricche si erano dotate di un esercito privato che custodiva le loro terre, e proclamavano, la loro fedeltà all'Impero anche quando complottavano contro di esso. Ormai non si trattava più di complotti solo virtuali. Con l'esercito pronto a difendere le loro proprietà, i baroni della nuova generazione s'accingevano a dichiarare la loro indipendenza da Yzordderrex e dalle sue tasse.

I consiglieri riferivano all'Autarca che non vi era prova di collusione tra quegli elementi. E come potevano essercene? Non avevano in comune un solo principio filosofico. Erano neo-feudalisti, neo-comunisti, neo-anarchici; gli uni nemici degli altri. Era una pura coincidenza che avessero deciso di ribellarsi nello stesso momento. Una coincidenza oppure una congiunzione astrale negativa.

L'Autarca ascoltava appena tutte quelle disquisizioni. Quel poco d'interesse che aveva provato per la politica all'inizio del suo regime era svanito. La politica non era certo l'arte per cui era nato, anzi la trovava noiosa e stupida. Proprio per questo aveva delegato i Tetrarchi a governare sui quattro Domini Riconciliati - il Tetrarca del Primo governava ovviamente solo in sua assenza - lasciandolo libero di coltivare la sua ossessione: trasformare Yzordderrex nella città delle città e il proprio palazzo nella sua gloriosa corona. Ma ciò che, alla fine, era riuscito a creare, non era altro che un monumento all'inutilità contro cui inveire, quasi come contro un nemico, quando era sotto l'effetto del kreauchee.

Un giorno, per esempio, in preda a uno stato allucinatorio, l'Autarca vide tutte le finestre delle stanze che davano sul deserto andare in frantumi e sui mosaici riversarsi tonnellate di carne putrefatta. Il giorno dopo, fu la volta di uno stormo di rapaci che, vinti i venti impetuosi che spiravano sulle sabbie, si avventò sui tavoli e sui letti preparati per l'imperatore dei Domini. In un altro accesso visionario, l'Autarca ordinò che fossero pescati dal delta dei pesci che poi mise a nuotare nelle sue piscine. L'acqua era calda, il cibo abbondante e i pesci si riprodussero così copiosamente che dopo poche settimane si sarebbe potuto attraversare le piscine camminando sulle loro schiene. Quando il sovraffollamento divenne insostenibile, l'Autarca si dilettò a osservarne le conseguenze: parricidi, fratricidi e infanticidi. Ma la sua vendetta più crudele contro la propria follia fu anche la più personale. Cominciò a usare di volta in volta i locali del suo palazzo, che avevano soffitti altissimi come palcoscenici, per rappresentarvi drammi in cui nulla era inventato, nemmeno la morte; e finito l'ultimo atto faceva sigillare ogni singolo "teatro" con la cura che una volta si riservava alla chiusura delle tombe dei re - per poi passare alla stanza successiva. Insomma, a poco a poco il glorioso palazzo di Yzordderrex si stava trasformando in un mausoleo.

Da questo processo erano comunque risparmiate le stanze nelle quali stava entrando in quel momento. I bagni, le camere, le sale e la cappella di Quaisoir erano intoccabili, giacché l'Autarca aveva giurato che non le avrebbe mai violate. Quaisoir le aveva arredate con ogni ricchezza e ogni articolo di lusso che desse piacere al suo occhio eclettico. Anche l'Autarca, prima di piombare in quella depressione, aveva condiviso il gusto di Quaisoir. La regina aveva riempito quelle stanze, in cui ora nidificavano i rapaci, di copie perfette di mobili barocchi e rococò; aveva ordinato che le pareti fossero coperte di specchi come nella reggia di Versailles e i bagni rivestiti d'oro. Da tempo, però, l'Autarca aveva perso quel gusto per le stravaganze e ora, al solo vedere le stanze di Quaisoir, cadeva preda di una nausea tale che, se non fosse stato per il bisogno impellente di kreauchee, sarebbe scappato, atterrito da quella opulenza.

Entrando, chiamò la moglie per nome. Dapprima passò attraverso le sale dove trovò i resti di una decina di pasti. Le stanze erano vuote. Poi l'Autarca chiamò dalla sala di ricevimento, arredata con uno sfarzo ancora maggiore delle altre, ma anche lì non rispose nessuno. Alla fine, si recò nella camera da letto.. Quando giunse sulla soglia, udì un calpestio sul pavimento di marmo e l'ancella di Quaisoir, Concupiscentia, entrò nel suo campo visivo. Era nuda, come sempre. La sua schiena era una distesa di estremità multicolori, ognuna delle quali agile come una coda di scimmia; gli arti anteriori erano molli, senza osso, ormai da generazioni ridotti allo stato di vestigia. I suoi grandi occhi verdi lacrimavano in continuazione e le piume poste a lato del viso si muovevano ininterrottamente per asciugare il liquido sulle guance arrossate.

"Dov'è Quaisoir?" chiese l'Autarca.

Concupiscentia coprì con una piuma civettuola delle sue code la parte bassa del viso e rise leggera come una geisha. L'Autarca l'aveva posseduta una volta, in preda agli effetti della droga, e la creatura, da allora, tutte le volte che lo vedeva non riusciva a risparmiargli quelle scene di corteggiamento.

"Non ora, perdio!" esclamò l'Autarca disgustato da quella vista. "Voglio mia moglie! Dov'è?"

Concupiscentia scosse il capo, arretrando davanti alla sua voce alterata e al suo pugno. L'Autarca la oltrepassò ed entrò nella stanza. Se c'era anche solo un pezzetto di kreauchee doveva essere lì, nel suo boudoir, dove Quaisoir era solita trascorrere il tempo oziando, mentre Concupiscentia le cantava inni e ninnenanne. La camera puzzava come un bordello dell'angiporto: l'odore di una decina di profumi diversi sembrava avvolgere la stanza come i veli che attorniavano il letto.

"Voglio il kreauchee!" urlò l'Autarca. "Dov'è?"

Concupiscentia scosse di nuovo il capo e questa volta si mise a piagnucolare.

"Dov'è?" gridò ancora. "Dov'è?"

Il profumo e quei veli lo fecero star male ed egli cominciò a lacerare le sete e i tessuti leggeri in preda alla rabbia. La creatura non intervenne fino a che l'Autarca non prese la Bibbia che stava aperta sui cuscini del letto e minacciò di strapparne le pagine finissime.

"Per favore, no!" gridò l'altra con la sua voce stridula. "No! Io picchiata se tu strappa Libro. Quaisoir ama Libro." L'Autarca non era abituato a sentire quell'idioma, l'inglese pidgin delle isole, e il solo suono finì per mandarlo su tutte le furie. Strappò una decina di pagine della Bibbia solo per farla gridare ancora. La creatura infatti gridò.

"Voglio il kreauchee!" gridò anche lui.

"Ho io! Ho io!" rispose la creatura, e lo condusse dalla camera da letto in un'enorme guardaroba che stava oltre l'ultima porta, dove si buttò alla ricerca della droga nei cassetti dorati del tavolo da trucco di Quaisoir. Prima di estrarre dal cassetto più piccolo l'oggetto desiderato, sorrise come un bambino colto con le mani nel sacco mentre osservava nello specchio l'espressione dell'Autarca. Questi le strappò dalle mani quel pacchettino con estrema violenza, prima che lei potesse proferire parola. Aveva capito subito dall'odore che gli arrivava alle narici che quel kreauchee era di ottima qualità, e senza un attimo di esitazione lo scartò e si mise in bocca il pezzo intero.

"Brava", disse a Concupiscentia. "Brava bambina. Ora dimmi, sai dove la tua padrona se l'è procurato?"

Concupiscentia scosse il capo. "Avuta a Kesparates, tante notti. Qualche volta chiesta, altre..."

"Facendo la puttana."

"No, no. Quaisoir no puttana."

"È là, adesso?" chiese l'Autarca. "È fuori a fare la puttana? È un po' presto, non ti pare? Oppure di pomeriggio si prostituisce a prezzo di favore?"

Il kreauchee era migliore di quanto sperava; sentiva che gli faceva effetto mentre parlava, che lo sollevava dalla depressione sostituendola con uno stordimento brutale. Anche se erano ormai passati quarant'anni dall'ultima volta che aveva penetrato Quaisoir (non ne aveva mai più sentito il desiderio), scoprire le infedeltà della moglie riusciva ancora a renderlo in qualche modo infelice. Ma la droga gli fece dimenticare il dolore. Poteva andare a letto ogni giorno con cinquanta uomini diversi: non gliene importava un fico secco. Non importava che provassero disprezzo o passione l'uno per l'altra. Tanto la storia li aveva resi indivisibili e li avrebbe tenuti uniti fino al giorno dell'Apocalisse.

"No puttana," continuava a ripetere Concupiscentia decisa a difendere l'onore della sua padrona sino alla fine. "Andata Scoriae."

"A Scoriae? Perché?"

"Esecuzioni," rispose Concupiscentia, pronunciando perfettamente quella parola imparata dalle labbra della padrona.

"Esecuzioni?" ripeté l'Autarca, avvertendo un senso di disagio nonostante l'effetto anestetico della droga. "Quali esecuzioni?"

Concupiscentia scosse la testa. "Non sapere," disse. "Solo esecuzioni. Esecuzioni. Lei pregare per loro..."

"Sono convinto che lo faccia."

"Noi tutti pregare per anime, così andare pulite davanti a Imperscrutato..."

Concupiscentia si abbandonò a una serie di frasi imparate a pappagallo. Il tipo di falsità cristiana che l'Autarca trovava nauseante quanto quell'arredamento. E che, come l'arredamento stesso, era opera di Quaisoir, Aveva abbracciato l'Uomo delle Pene solo da pochi mesi e subito si era convinta di esserne la sposa. Un'altra infedeltà, meno sifilitica delle centinaia di altre che l'avevano preceduta ma, in ogni caso, altrettanto patetica.

L'Autarca lasciò Concupiscentia al suo blaterare infinito e ordinò alla sua guardia del corpo di andare a chiamare Rosengarten. C'erano delle domande a cui si doveva dare risposta subito, altrimenti non ci sarebbero state esecuzioni solo a Scoriae.

 

II

 

Lungo la via di Lenten, Gentle aveva cominciato a credere che Huzzah, lungi dall'essere il peso che aveva temuto, fosse in realtà una benedizione. Se non ci fosse stata lei, probabilmente la Dea della Culla Tishalullé non sarebbe intervenuta in loro favore; né sarebbe stato così facile fare l'autostop sull'autostrada se non avessero avuto con loro quell'amabile bambina ad alzare il pollice. Nonostante tutti quei mesi trascorsi nascosta nei meandri del manicomio (o forse proprio grazie a quelli), Huzzah era così avida di conversazione che, dalle risposte alle sue domande ingenue, Pie e Gentle riuscirono a trarre una quantità di informazioni. Anche mentre il gruppetto attraversava la strada sopraelevata che portava in città, Huzzah aveva attaccato bottone con una donna che fu ben felice di fornire ai viandanti un elenco dei Kesparate, indicando addirittura loro quelli che erano visibili dalla strada che stavano percorrendo. Gentle non riusciva a tenere a mente tutti quei nomi e quelle indicazioni, ma gli bastò dare un'occhiata al mystif per capire che invece lui stava ascoltando attentamente e avrebbe imparato tutti quei nomi a memoria prima di arrivare all'altro capo della sopraelevata.

"Meraviglioso," disse Pie a Huzzah quando la donna si allontanò. "Non ero sicuro di ritrovare il Kesparate della mia gente. Adesso so dove andare."

"Su per Oke T'Noon fino al Caramess, dove producono i dolci preferiti dall'Autarca," disse Huzzah, ripetendo precisamente le indicazioni come se le stesse leggendo su una lavagna. "Dobbiamo seguire il muro del Caramess finché non arriviamo alla strada del Fumo, poi su per il Viaticum e da lì dovremmo essere in grado di vedere i cancelli."

"Come fai a ricordarti tutto?" le chiese Gentle e Huzzah, di rimando, gli domandò quasi con disprezzo come invece lui avesse potuto dimenticare già tutto.

"Non dobbiamo perderci," aggiunse poi.

"Non ci perderemo," rispose Pie. "Nel mio Kesparate ho degli amici che ci aiuteranno a trovare i tuoi nonni."

"Se non ci riusciranno, non importa," replicò la ragazza, passando con lo sguardo da Pie a Gentle. "Verrò con voi nel Primo Dominio. Non m'importa. Mi piacerebbe vedere l'Imperscrutato."

"Come fai a sapere che noi intendiamo andare proprio là?" le domandò Gentle.

"Vi ho sentiti mentre ne parlavate," rispose tranquilla Huzzah. "Perché, non ho forse ragione? Non è questo che avete in mente? Non preoccupatevi, io non ho paura. Abbiamo già visto una Dea, non è vero? E lui sarà lo stesso, solo non così bello."

Questa risposta poco lusinghiera divertì Gentle. "Sei un angelo, lo sai?" le disse chinandosi ad abbracciarla. Huzzah era ingrassata di qualche chilo da quando avevano iniziato il viaggio e il suo abbraccio era diventato più energico.

"Ho fame," sussurrò all'orecchio di Gentle.

"E allora adesso troveremo qualcosa da mangiare," le rispose lui. "Non possiamo permetterci che il nostro angioletto muoia di fame."

Camminarono per le vie ripide di Oke T'Noon fin quando non si liberarono della folla di passanti che invadeva la sopraelevata. C'era una grandissima quantità di locali che offrivano la prima colazione, da osterie che vendevano pesce alla griglia a caffetterie che assomigliavano a quelle tipiche delle strade di Parigi. L'unica cosa assolutamente diversa erano i clienti che sorseggiavano il caffè. Costoro erano ben più straordinari di quelli che poteva vantare quella pur esotica città. Alcune specie erano già note a Gentle: Oethac e Heraten; lontani parenti di Mamma Splendid, e Hammeryock; persino qualcuno che assomigliava al croupier monocolo di Attaboy. Ma per ogni membro di una tribù di cui Gentle riconosceva le caratteristiche, ce n'erano sempre altri due o tre che non aveva mai visto prima. Com'era già successo a Vanaeph, Pie gli ripeté che osservare con troppa insistenza era un errore, e Gentle fece del suo meglio per non esibire una faccia troppo smaccatamente assorta davanti a quello spiegamento di cortesie, bizzarrie, demenze, posture, pelli e. urla che popolavano le strade. Ma era molto difficile. Dopo un po' riuscirono a trovare un bar dal quale proveniva un profumo di cibo particolarmente invitante e Gentle si sedette vicino a una delle finestre da cui poteva osservare senza per questo attirare troppo l'attenzione.

"Avevo un amico di nome Klein nel Quinto Dominio," si mise a raccontare mentre mangiavano. "Klein si divertiva a chiedere alle persone che cosa avrebbero fatto se avessero saputo di avere solo altri tre giorni di vita."

"Perché proprio tre?" chiese Huzzah.

"Non so. Perché non tre? E uno degli infiniti numeri che esistono."

"In ogni storia c'è posto sempre e solo per tre attori," sottolineò il mystif. "Tutti gli altri devono essere..." Si interruppe nel mezzo della citazione. "... devono essere comparse. Questo dice Pluthero Quexos."

"Chi è?"

"Non importa."

"Dov'ero rimasto?"

"Klein," disse Huzzah.

"Quando Klein mi faceva questa domanda io gli dicevo sempre: se mi rimanessero solo tre giorni di vita, andrei a New York perché là si hanno più probabilità che in qualsiasi altro posto di veder realizzati i propri sogni più perversi. Ma adesso che ho visto Yzordderrex..."

"Non hai ancora visto molto di Yzordderrex," puntualizzò Huzzah.

"E già sufficiente, angelo mio. Se mai me lo chiederà ancora, gli dirò: vorrei morire a Yzordderrex."

"Facendo colazione con Pie e Huzzah," concluse la ragazzina.

"Esatto."

"Esatto," gli fece eco Huzzah, imitando alla perfezione il tono di voce di Gentle.

"C'è qualcosa che non riuscirei a trovare qui, anche se mi ci mettessi di impegno?"

"Pace e tranquillità," rispose Pie.

La confusione che regnava all'esterno penetrava anche nel bar.

"Sono sicuro che troveremo dei piccoli cortili tranquilli su al palazzo," disse Gentle.

"È là che andremo?" chiese Huzzah.

"Ora ascoltami," riprese Pie, "Innanzi tutto il signor Zacharias non sa proprio di che cosa cacchio sta parlando..."

"Pie, attento alle parole," intervenne Gentle.

"E in secondo luogo, ti abbiamo portata con noi per trovare i tuoi nonni e questa è la prima cosa che dobbiamo fare. Giusto, signor Zacharias?"

"E che cosa succede se non riusciamo a trovarli?" domandò Huzzah.

"Li troveremo," si affrettò a dichiarare Pie. "I miei amici conoscono questa città meglio delle loro tasche."

"Davvero è possibile?" disse Gentle. "Ho forti dubbi al riguardo."

"Quando avrai finito di bere il caffè, andremo da loro e loro ti dimostreranno che ho ragione io," concluse Pie.

 

Dopo essersi rimpinzati, Gentle, Pie e Huzzah uscirono in strada e seguirono l'itinerario che era stato loro indicato: da Oke T'Noon al Caramess costeggiando il muro fino alla strada del Fumo, per quanto in realtà quelle indicazioni non si rivelassero poi troppo attendibili. La strada del Fumo, una delle vie principali, per quanto stretta e di gran lunga meno trafficata rispetto a quelle che avevano appena lasciato, non arrivava, come era stato loro detto, fino al Viaticum, ma portava verso un agglomerato di case molto simile a una baraccopoli. I bambini giocavano in mezzo alla polvere e tra loro c'era un animale selvatico, un incrocio malriuscito tra un suino e un cane simile a quello che Gentle aveva visto maltrattare a Mai-Ké ma che qui veniva trattato come un cucciolo. Fosse per il fango, fosse per i bambini, quella bestia emanava un puzzo tremendo che aveva attirato innumerevoli zarzi.

"Credo che abbiamo sbagliato a non svoltare prima," disse il mystif. "Forse sarebbe meglio che..."

S'interruppe a metà della frase per ascoltare le grida che provenivano da un luogo vicino e che fecero alzare in tutta fretta i bambini dal fango per correre verso la sorgente di quei rumori. In tutto quel baccano vi era un suono assolutamente disarmonico che aumentava e diminuiva d'intensità, come l'urlo di un guerriero. Prima che Pie e Gentle potessero fare qualsiasi osservazione in proposito, Huzzah si mise a seguire i bambini cercando di evitare le pozzanghere e quegli strani animali che razzolavano nei dintorni, Gentle guardò Pie, che alzò le spalle, e poi entrambi si misero a rincorrere Huzzah. Attraversato un viale si ritrovarono in un'ampia strada molto trafficata che si stava svuotando a velocità incredibile perché i pedoni, i conducenti di auto e tutti gli altri cercavano di sfuggire a ciò che stava scendendo nella loro direzione dalle colline circostanti.

Per primo arrivò colui che urlava: un armigero alto due volte Gentle, che teneva in ogni mano una bandiera rosso scarlatto che gli sbatteva sulla schiena mentre correva; l'intensità del suo grido non diminuiva per la velocità della corsa. Dietro di lui arrivava un battaglione di soldati ugualmente armati - nessuno di loro era sotto i due metri e mezzo di altezza - seguito da un veicolo che era stato appositamente realizzato per salire e scendere i pendii scoscesi della città con il minimo disagio per i passeggeri. Aveva le ruote alte quanto l'energumeno urlante, l'abitacolo era incassato tra le ruote, la carrozzeria era liscia e scura, i finestrini ancora più scuri. Un gabbiano era rimasto intrappolato tra i raggi delle ruote durante la discesa della collina; sbatteva le ali e perdeva sangue a ogni giro di ruota, e le sue strida erano uno straziante ma perfetto complemento al frastuono delle ruote, del motore e dell'essere che guidava urlando il reparto.

Gentle afferrò Huzzah per impedire che venisse investita, anche se, in effetti, quel pericolo non sussisteva. La ragazza si girò verso di lui con un ampio sogghigno.

"Chi era?" chiese.

"Non lo so."

Una donna che si nascondeva dentro un portone alle loro spalle rispose al suo posto.

"Quaisoir," disse. "La donna dell'Autarca. Hanno fatto degli arresti a Scoriae. Altri Dearther."

L'intrusa fece un gesto con le dita, portandole da un occhio all'altro, poi verso la bocca, premette le nocche dell'indice e dell'anulare contro le narici mentre con il medio tirava il labbro inferiore; tutto con la velocità di chi faccia lo stesso segno innumerevoli volte al giorno. Poi si girò e riprese il cammino tenendosi rasente il muro.

"Athanasius era un Dearther, non è vero?" chiese Gentle. "Forse dovremmo andare giù anche noi a vedere che cosa succede."

"C'è troppa gente," disse Pie.

"Saremo coperti dalla folla," ribatté Gentle. "Sono curioso di vedere come lavora il nemico."

Senza dare il tempo a Pie di obiettare, Gentle prese Huzzah per mano e si mise a rincorrere le truppe di Quaisoir. Non fu difficile ritrovare il corteo. Lungo tutto il sentiero facce nuove apparivano alle finestre e alle porte come anemoni raschiati via dalla pancia di uno squalo: curiosi ma pronti a nascondere le loro dolci testoline alla minima ombra. Solo un paio di bimbetti, ancora non educati al terrore, osarono mostrarsi quando i tre stranieri giunsero in mezzo alla strada, dove la luce della Cometa era più intensa. Ma furono subito richiamati nella sicurezza relativa dell'interno dei portoni in cui si nascondevano i loro custodi.

Mentre il terzetto scendeva dalla collina, ecco apparire all'improvviso l'oceano e il porto, visibili tra case assai più vecchie di quelle di Oke T'Noon o anche della Caramess. L'aria era pulita e frizzante; faceva accelerare il passo. Dopo un po' le case lasciarono spazio ai moli: magazzini, gru e silos dappertutto. Ma quella zona era tutt'altro che deserta. Gli operai non erano intimoriti come gli occupanti del Kesparate, e molti lasciarono il lavoro per andare a vedere a che cosa si dovesse tutto quel trambusto. Erano un gruppo molto più omogeneo di quelli che Gentle aveva visto altrove. La maggior parte era un incrocio tra un Oethac e un Homo sapiens: sembravano forti, addirittura brutali e, di certo, se si fossero radunati in numero sufficiente, avrebbero potuto impegnare e battere il battaglione di Quaisoir. Gentle si issò Huzzah sulle spalle quando arrivarono in mezzo a quella folla, per paura che venisse calpestata. Alcuni scaricatori sorrisero e si fecero da parte in modo da permettere ai due di conquistare un posto più sicuro, ma non appena riuscirono a scorgere le truppe, la folla di nuovo si mosse e impedì loro la visuale.

Un piccolo contingente di soldati aveva il compito specifico di tenere lontani i curiosi, affinché non si avvicinassero troppo al campo di azione, ma la folla era troppo numerosa e continuava a crescere premendo sul cordone che delimitava il luogo delle ostilità, un magazzino a circa duecento metri che sembrava in stato d'assedio. Le pareti dell'edificio erano completamente sforacchiate dai proiettili e le finestre più basse erano offuscate dal fumo. Le truppe assedianti, che non erano così magnificamente vestite come il battaglione di Quaisoir, ma indossavano invece l'uniforme monocroma che Gentle aveva visto sfilare a L'Himby, trascinavano corpi senza vita fuori dall'edificio. Alcuni soldati si trovavano al secondo piano e lanciavano dalle finestre su un sottostante mucchio sanguinolento i corpi di alcuni morti e di altri che ancora davano qualche segno di vita. Gentle si ricordò di Beatrix. Quella distruzione era forse un segno della mano dell'Autarca?

"Non dovresti guardare, angelo mio," disse Gentle a Huzzah invitandola a scendere dalle sue spalle. La ragazzina resistette aggrappandosi ai capelli di Gentle.

"Voglio guardare," proclamò. "L'ho visto un sacco di volte con il mio papà."

"Be', almeno non vomitarmi addosso," la ammonì Gentle.

"Tranquillo," rispose lei indignata.

Si vedevano brutalità incredibili. Un sopravvissuto era stato lanciato fuori dall'edificio e preso a calci a pochi metri dal veicolo di Quaisoir, che aveva porte e finestrini ancora ermeticamente chiusi. Un altro tentava come meglio poteva di difendersi dai colpi di baionetta, gridando in segno di sfida mentre i suoi aguzzini lo stringevano in un cerchio sempre più stretto. Tutto si bloccò all'improvviso quando sul tetto del magazzino comparve un uomo, vestito con poco più che brandelli di indumenti, che aprì le braccia come un'anima in attesa del martirio e si accinse a parlare all'assemblea sottostante.

"Ma è Athanasius!" mormorò Pie con sorpresa.

Il mystif aveva una vista nettamente migliore di quella di Gentle, che dovette strizzare gli occhi per confermare di aver identificato l'uomo. Era davvero Padre Athanasius con i capelli e la barba più lunghi che mai, le mani, la fronte e i fianchi sanguinanti.

"Che cosa cavolo ha intenzione di fare?" si domandò Gentle. "Recitare un sermone?"

Il discorso di Athanasius non era indirizzato esclusivamente alle truppe e alle loro vittime. Athanasius volgeva ripetutamente il capo verso la folla, gridando anche nella loro direzione. Le sue parole, però, si perdevano nel vento e non si capiva se fossero accuse, incitamenti a prendere le armi o preghiere. La sua orazione sembrava assurda e comunque indubbiamente suicida. Sotto, i soldati avevano già alzato i fucili e stavano per fare fuoco.

Ma, prima che potessero sparare un colpo, il prigioniero che era stato preso a Calci a terra vicino alla carrozza di Quaisoir riuscì a fuggire. I suoi carcerieri, distratti dallo spettacolo offerto da Athanasius, non ebbero i riflessi abbastanza pronti e quando si accorsero della fuga, la loro vittima stava già saettando tra la folla. La gente cominciò ad aprirsi, anticipando l'arrivo dell'uomo, ma le truppe dietro di lui stavano già prendendo la mira con i fucili. Comprendendo che avevano intenzione di sparare sulla folla, Gentle si piegò istantaneamente sulle ginocchia gridando a Huzzah di scendere e di gettarsi a terra, cosa che la ragazza questa volta fece senza protestare. Ebbe appena il tempo di mettersi al riparo che si udì la prima raffica. Gentle sollevò la testa per guardare e, attraverso la confusione dei colpiti a morte, riuscì a vedere Athanasius che cadeva, come se fosse stato centrato, e spariva dietro il parapetto che circondava il tetto.

"Che idiota," disse Gentle a se stesso. Stava per raccogliere Huzzah e portarla in salvo, quando venne sparata una seconda raffica che lo immobilizzò.

Una pallottola prese in pieno uno scaricatore di porto che stava a pochi metri da lui e l'uomo cadde come un albero abbattuto. Gentle si guardò intorno in cerca di Pie e nel farlo si sollevò un poco. Anche il Dearther che aveva tentato la fuga era stato colpito, ma stava ancora cercando di andare avanti, facendosi largo tra la folla impazzita. Alcuni scappavano, altri rimanevano fermi sul posto in segno di sfida, altri ancora si precipitavano ad aiutare lo scaricatore colpito.

Probabilmente il Dearther non si rendeva neppur conto di ciò che succedeva. Andava avanti per forza di inerzia, la sua faccia, troppo giovane per esibire la barba, era pallida e senza espressione, lo sguardo fìsso nel vuoto. Le labbra sembravano voler pronunciare un'ultima parola, ma un buon tiratore lo prevenne. Un'altra pallottola lo colpì dietro la nuca e lo passò dall'altra parte, dove tre linee blu erano state tatuate proprio all'altezza della gola: quella di mezzo corrispondeva al pomo d'Adamo. Fu spinto in avanti dall'impatto della pallottola e i pochi uomini che si trovavano tra lui e Gentle si spostarono di lato. Cadde a terra a un paio di metri da Gentle, e il suo corpo continuò a spasimare. Nonostante fosse caduto faccia a terra, con le mani tentò ancora disperatamente di procedere verso i piedi di Gentle come se sapesse perfettamente dove stava andando. Il braccio sinistro cedette prima che potesse raggiungere la meta, mentre il destro ebbe appena la forza sufficiente per arrivare a toccare la punta della scarpa logora di Gentle.

Questi udì Pie mormorargli sempre con maggiore insistenza di venire via, ma Gentle non poteva abbandonare così quell'uomo, non in quegli ultimi istanti di vita. Si curvò per prendere quelle dita morenti nella propria mano, ma arrivò troppo tardi. Il braccio perse completamente l'energia rimastagli e la mano cadde senza vita per terra.

"Allora, adesso vieni?" chiese Pie.

Gentle distolse lo sguardo dal corpo e guardò verso l'alto. La scena aveva richiamato degli spettatori e nei volti di quelle persone egli ravvisò un senso di attesa che metteva a disagio: imbarazzo e rispetto si mescolavano a una chiara richiesta di spiegazioni. Gentle non sapeva però cosa dire e aprì le braccia come a significare che lui non aveva fatto nulla. Gli astanti continuavano a fissarlo immobili e Gentle cominciò a pensare che, se non avesse detto nulla, probabilmente gli sarebbero saltati addosso. Poi, improvvisamente, un'altra raffica proveniente dal magazzino preso d'assedio ruppe l'incantesimo, e la folla che era rimasta immobile tutto il tempo a fissare abbandonò lo sguardo indagatore e alcuni mossero perfino la testa come per riscuotersi da uno stato di trance. Il secondo prigioniero era stato giustiziato contro il muro del magazzino, e gli spari adesso venivano indirizzati sulla montagna dì corpi per mettere a tacere anche l'ultimo sopravvissuto. Altre truppe apparvero sul tetto, molto probabilmente con l'intento di dare il colpo di grazia ad Athanasius. Ma non ci riuscirono, perché l'uomo o aveva finto di essere stato colpito oppure era sopravvissuto al ferimento, comunque era sgattaiolato via mettendosi in salvo durante quel finimondo: fatto sta che i suoi inseguitori rimasero con un pugno di mosche.

Tre dei soldati che formavano il cordone e che, quando i loro commilitoni avevano iniziato a sparare sulla folla, erano corsi al riparo, tornarono a cercare il corpo del fuggitivo. Incontrarono molta resistenza passiva da parte della folla che si frapponeva tra loro e le giovani vite troncate a terra. I soldati si fecero largo a colpi di baionetta e picchiando con precisione con il calcio del fucile, ma Gentle ebbe comunque tutto il tempo di mettersi al riparo e di evitare le botte.

Ed ebbe anche il tempo di voltarsi verso la montagna dei corpi senza vita, visibile oltre le teste della folla. La porta della carrozza di Quaisoir era stata aperta e, preceduta dalla sua guardia del corpo che formava uno scudo protettivo, la regina uscì alla luce del sole. Era quella, dunque, la consorte dell'odioso tiranno dell'Imagica, e Gentle indugiò pericolosamente per vedere quali effetti tanta intimità con il male avesse potuto sortire su di lei.

Quando riuscì a metterla a fuoco, quella visione, per quanto i suoi occhi non fossero davvero quelli di un falco, gli tolse il respiro. Era umana e bella. E la sua non era una bellezza qualunque, era quella di Judith.

Pie lo prese per un braccio, cercando di portarlo via, ma Gentle non si mosse.

"Guardala. Gesù. Guardala, Pie. Guarda!"

Il mystif indirizzò lo sguardo verso quella donna.

"È Judith," esclamò Gentle.

"È impossibile," rispose Pie.

"È lei! È lei! Aguzza la vista, cazzo! È Judith!"

Fu come se la voce di Gentle facesse erompere la rabbia raggelata della folla, e una violenza irrefrenabile prese a bersaglio i tre soldati che stavano ancora cercando il corpo del giovane caduto. Uno di loro fu randellato a terra, un altro cercò di difendersi aprendo il fuoco. La violenza cresceva a vista d'occhio. La gente estrasse coltelli e machete dalle cinture. In soli cinque secondi la folla divenne un esercito e cinque secondi dopo aveva già fatto le sue prime tre vittime. Judith era sparita e Gentle non aveva altra scelta che seguire Pie, forse più per difendere l'incolumità di Huzzah che la propria. Si sentiva stranamente invulnerabile, come se gli sguardi fìssi di poco prima lo avessero dotato di una vita incantata.

"Era Judith, Pie," ripeté Gentle quando furono lontani dalle grida e dagli spari e fu possibile parlare e farsi sentire.

Huzzah gli stringeva la mano e gli tirava il braccio, tutta eccitata.

"Chi è Judith?" chiese.

"Una signora che conosciamo," rispose Gentle.

"Come poteva essere lei?" domandò il mystif, con tono irritato quanto esasperato. "Prova a chiedertelo: come poteva essere lei? E se riesci a darti una risposta, sarò felice di ascoltarti. Davvero. Dimmi."

"Non lo so," rispose Gentle. "Ma sono sicuro di quello che ho visto."

"L'abbiamo lasciata nel Quinto, Gentle."

"Ma se io sono passato, perché non potrebbe essere passata anche lei?"

"E in soli due mesi è riuscita anche a diventare la moglie dell'Autarca? Un'ascesa folgorante, non credi?"

Si udì una nuova raffica provenire dal magazzino, seguita da un tumulto di voci così cupo che rimbombò sulla pietra sotto i loro piedi. Gentle si fermò e fece alcuni passi indietro per osservare quello che stava succedendo giù al porto.

"Sta per scoppiare una rivoluzione," disse semplicemente.

"Io credo che sia già iniziata," replicò Pie.

"La uccideranno," aggiunse Gentle, lanciandosi di nuovo giù per la collina.

"Dove cazzo credi di andare?" gli chiese Pie.

"Vengo con te," intervenne Huzzah, ma il mystif l'afferrò per un braccio impedendole di seguirlo.

"Tu non vai proprio da nessuna parte," disse. "Solo a casa dai tuoi nonni. Gentle, mi vuoi ascoltare? Non è Judith."

Gentle si voltò verso il mystif cercando di mantenersi calmo e ragionevole.

"Se non è lei, è una sua sosia, una sua eco. Una parte di lei che è qui a Yzordderrex."

Pie non rispose. Si limitò a osservarlo in silenzio per costringerlo a dargli una spiegazione più soddisfacente della sua teoria.

"Forse alcune persone hanno il dono dell'ubiquità," aggiunse. Il senso d'impotenza che provava gli faceva fare delle smorfie. "Sono sicuro che era lei, e qualsiasi cosa tu dica non mi farà cambiare parere. Voi due andate al Kesparate e aspettatemi là. Io..."

Prima che potesse terminare la frase, l'essere che aveva guidato la discesa di Quaisoir dalle alture della città prese a lanciare il suo grido con un tono più acuto, che fu immediatamente sommerso da un'ondata di esultanza.

"Ha tutta l'aria di essere una ritirata," disse Pie, e venti secondi dopo ne ebbe conferma quando vide apparire la carrozza di Quaisoir circondata da quello che era rimasto del suo corteo. Il terzetto ebbe tutto il tempo di spostarsi dalla strada, dato che la velocità della ritirata non era paragonabile a quella dell'avanzata. Non solo la salita era ripida ma le guardie della carrozza dovevano anche sopportare il dolore delle ferite che si erano procurate cercando di difendere il veicolo dagli assalti: la loro ritirata lasciava sul terrreno una striscia di sangue.

"Ci saranno delle rappresaglie, ora," disse Pie.

Gentle mormorò qualcosa in segno di conferma mentre continuava a fissare la salita su cui la carrozza procedeva.

"Devo rivederla," aggiunse.

"Sarà piuttosto difficile," lo ammonì Pie.

"Devo farmi vedere da lei," continuò Gentle. "Come l'ho riconosciuta io, lei riconoscerà me. Ci scommetto tutto quello che vuoi."

Pie ignorò la scommessa, e si limitò a chiedere: "Quando, adesso?"

"Andiamo al tuo Kesparate e mandiamo una squadra alla ricerca dei parenti di Huzzah. Poi andiamo lassù," fece cenno con il capo verso il palazzo "e cerchiamo di vedere più da vicino Quaisoir. Ho un paio di domande da farle. Chiunque lei sia."

 

III

 

Il vento cambiò direzione non appena il terzetto si rimise in cammino, e la lieve brezza oceanica lasciò all'improvviso il posto a un vento proveniente dal deserto, terribilmente caldo. Tutti gli abitanti della città erano abituati a questi cambiamenti climatici, e al primo cenno di variazione del vento si misero in moto con meccanica, e per certi versi comica efficienza. Le donne tolsero dai davanzali la biancheria appesa e i vasi di fiori; i cani e i gatti randagi lasciarono i loro posti al sole per rifugiarsi nell'interno delle case; gli uomini arrotolarono le tende e chiusero le finestre. Nel giro di pochi minuti le strade si svuotarono.

"Ho già sperimentato una di queste dannate tempeste," disse Pie. "E non penso che nessuno di noi abbia voglia di rimanerci in mezzo."

Gentle gli disse di non agitarsi, si caricò Huzzah sulle spalle e riprese il cammino, mentre la tempesta si sfogava sulle strade. Pochi minuti dopo il levarsi del vento, il gruppo aveva chiesto nuove indicazioni sulla direzione da prendere a un commerciante che sembrava conoscere bene la zona. Ma se le indicazioni che avevano ricevuto erano buone, non lo erano altrettanto le condizioni in cui ripresero il cammino. Il vento puzzava come un peto e si portava dietro ondate accecanti di sabbia assieme a un calore feroce. Ma, almeno, le strade erano vuote. Gli unici individui che ancora si aggiravano per la città erano i criminali, i pazzi o i senzatetto: categorie in cui rientravano Gentle, Pie e Huzzah. Raggiunsero il Viaticum senza errori o incidenti; da lì il mystif conosceva la strada. Più di due ore dopo essersi allontantati dall'assedio del porto raggiunsero il Kesparate degli Eurethmec. La tempesta dava i primi segni di cedimento, proprio come loro, ma la voce di Pie quasi cantava di gioia quando il mystif annunciò: "Eccoci qui. È qui che sono nato."

Il Kesparate davanti ai loro occhi era cinto di mura, ma i cancelli erano aperti e oscillavano al vento.

"Vai avanti, ti seguiamo," disse Gentle, posando a terra Huzzah.

Il mystif spalancò un cancello e guidò il gruppetto tra le viuzze del Kesparate, che il vento adesso permetteva di scorgere, dato che era diminuito in intensità e la sabbia si era posata al suolo. Quelle strade, come tutte del resto, portavano verso il palazzo di Yzordderrex, ma le abitazioni di quella zona erano molto differenti rispetto alle altre della città. Le case si innalzavano a una discreta distanza l'una dall'altra, erano alte e lustre, ognuna presentava un'unica finestra che, da sopra la porta, arrivava fino al cornicione in alto dove la struttura si suddivideva in quattro tetti sovrapposti, una soluzione architettonica che faceva assomigliare gli edifici, osservati l'uno dietro l'altro, a una fila di alberi pietrificati. I veri alberi erano nelle strade di fronte alle case: alberi i cui rami si piegavano al vento che diminuiva come le alghe nella corrente marina, rami estremamente flessibili i cui numerosi fiori bianchi dovevano essere estremamente resistenti se la tempesta non li aveva nemmeno gualciti.

Gentle non si rese conto dell'ondata di pensieri e sentimenti che aveva sommerso Pie, tornato al luogo natale dopo molti decenni, fin quando non lo guardò in volto. Dato che lui, Gentle, non aveva quasi memoria, non poteva sapere che cosa significasse portare dentro di sé un simile peso. Gentle non aveva dolci ricordi di riti infantili, di teneri episodi natalizi né, tantomeno, di soavi ninnenanne. Per capire che cosa stesse provando Pie, avrebbe dovuto ricostruire il tutto a livello puramente mentale e il risultato, ne era certo, non sarebbe mai stato paragonabile a un sentimento vero.

"La casa dei miei genitori stava tra il cianculi...," disse facendo un gesto rivolto alla sua destra mentre le ultime folate di vento e sabbia offuscavano la vista. "... e l'ospizio." Nel luogo indicato, si intravedeva un edificio con i muri bianchi.

"Quindi qua vicino," aggiunse Gentle.

"Penso di sì," confermò Pie, anche se evidentemente la memoria gli stava giocando qualche scherzo.

"Perché non chiediamo a qualcuno?" suggerì Huzzah.

Pie accolse immediatamente quel suggerimento recandosi alla casa più vicina e bussando alla porta. Nessuna risposta. Andò verso la porta della casa successiva e riprovò. La casa era deserta. Intuendo il disagio di Pie, Gentle prese Huzzah per mano e si avvicinò all'amico per stargli vicino nel terzo tentativo. La risposta fu la stessa: silenzio, un silenzio reso ancora più palpabile dal fatto che il vento aveva cessato di soffiare.

"Non c'è nessuno qui," disse Pie, riferendosi - Gentle lo sapeva - non solo alle case vuote ma a tutto il villaggio deserto. La tempesta era passata. La gente si sarebbe dovuta affacciare sulle soglie per spazzare via la sabbia e dare un'occhiata ai tetti nel caso fossero stati danneggiati. Ma non c'era nessuno. Le strade eleganti, costruite con tanta accuratezza, erano completamente deserte.

"Forse sono andati da qualche parte," suggerì Gentle. "Esiste un luogo dove di solito si incontrano? Una chiesa, un Senato?"

"Il cianculi è il luogo più vicino," disse Pie indicando quattro cupole color giallo pallido che si stagliavano tra gli alberi tagliati a forma di cipresso ma dalle foglie color blu di Prussia. Gli uccelli che vi si erano posati si levarono in volo nel cielo terso, e le loro ombre furono in quell'istante l'unico movimento visibile su quelle strade.

"Che cosa si fa nel cianculi?" domandò Gentle, mentre si dirigevano verso le cupole.

"Ah! Quand'ero giovane... quand'ero giovane era lì che davamo spettacolo con il circo," rispose Pie, cercando di affettare un'allegria che era ben lungi dal provare.

"Non sapevo che discendessi da gente del circo."

"Quei circhi non avevano niente a che vedere con quelli del Quinto Dominio," spiegò Pie. "Era solo un modo per ricordare il Dominio da cui eravamo stati esiliati."

"Non c'erano pagliacci e pony?" chiese Gentle.

"No, nessun pagliaccio e nessun pony," rispose Pie, e con ciò mostrò di ritenere chiuso il discorso.

Ora che si trovavano vicino al cianculi, i tre viandanti potevano meglio rendersi conto delle sue dimensioni e di quelle degli alberi che lo circondavano. L'edificio, dal piano terreno al vertice della sua cupola più ampia, era alto cinque piani. Gli uccelli, dopo aver fatto un giro d'onore intorno al Kesparate, si stavano andando a posare di nuovo sugli alberi, cinguettando come pappagalli che avessero imparato il giapponese. L'attenzione di Gentle si concentrò brevemente su quello spettacolo, poi fu riportata a terra da Pie che diceva: "Non sono tutti morti."

Dagli alberi blu di Prussia stavano uscendo quattro figure della tribù del mystif, quattro negri avvolti in abiti scoloriti come nomadi del deserto che tenevano le pieghe della loro veste tra i denti a coprire metà del viso. Non c'era niente nella loro andatura o nei loro indumenti che potesse dare un minimo indizio sul loro sesso, ma le loro intenzioni erano palesi, cioè bloccare il passo a chi era penetrato nel loro territorio. Erano armati di sottili barre d'argento taglienti, lunghe circa un metro, appese ai fianchi.

"Non muovetevi e non parlate," ordinò il mystif a Gentle, mentre il quartetto armato si avvicinava.

"Perché no?"

"Non è una festa di benvenuto."

"Che cosa è allora?"

"Una squadra di giustizieri."

Detto questo, il mystif alzò le mani sul petto con i palmi verso l'esterno, poi venendo meno al proprio ordine fece un passo avanti e parlò con il drappello. La lingua che usarono non era inglese ma aveva la stessa cadenza ritmata orientale che Gentle aveva sentito dai becchi degli uccelli, poco prima. Forse stavano proprio parlando nella lingua di quei volatili.

Uno dei quattro abbassò il velo mordicchiato rivelando il volto di una donna di mezza età con un'espressione più preoccupata che aggressiva. Dopo aver ascoltato Pie per un po', la donna mormorò qualcosa all'individuo che stava alla sua destra e l'altro per tutta risposta si limitò a scuotere il capo.

Il drappello aveva continuato ad avvicinarsi a Pie, mentre parlava, con passo deciso e costante. Gentle udì poi pronunciare dal mystif, durante il suo monologo, le sillabe di Pie'oh'pah, e a quel nome la donna intimò l'alt.

Altri due individui si tolsero il velo: erano uomini con tratti molto lineari, come quelli del loro leader. Uno di loro aveva baffi sottili, ma i segni di ambiguità sessuale così squisitamente evidenti in Pie erano palesi anche in loro. Senza che la donna aggiungesse parola, il suo compagno scoprì un'altra ambiguità, per quanto meno attraente. Allontanò la mano dalla barra d'argento e questa fu sollevata dal vento, attraversata per tutta la sua lunghezza da un'increspatura che la fece sembrare fatta di seta anziché d'acciaio. Il baffuto se la portò alla bocca e se la pose sulla lingua. Essa cadde dalle sue labbra e dalle sue dita con soffici volute continuando, pur se piegata e ondeggiante, a scintillare come una lama.

Gentle non poteva sapere se questo gesto rappresentasse una minaccia o meno, ma, in risposta, Pie si mise in ginocchio e, con un cenno della mano, ordinò a Gentle e Huzzah di imitarlo. La bambina lanciò un'occhiata interrogativa in direzione di Gentle cercando la sua approvazione. Gentle alzò le spalle e annuì, ed entrambi si inginocchiarono sebbene, per come la vedeva Gentle, egli pensasse che quella fosse l'ultima posizione da adottare di fronte a un drappello di giustizieri.

"Preparati a correre..." sussurrò verso Huzzah, e la ragazza assentì con un cenno nervoso del capo.

L'uomo con i baffi stava parlando ora con Pie nella stessa lingua che il mystif aveva usato prima. Nulla nel suo tono o nel suo atteggiamento sembrava particolarmente minaccioso, ma allo stesso modo nulla, pensava Gentle, poteva dare prova del contrario. Positivo era il fatto che ci fosse dialogo, e a un certo punto, durante lo scambio di battute, calò anche il quarto velo. Un'altra donna, più giovane della prima, e al tempo stesso meno gradevole, intervenne nella conversazione con un tono imperioso, facendo sibilare in aria il nastro lama a pochi centimetri dalla testa china di Pie. Il fatto che si trattasse di un'arma letale non poteva essere messo in discussione. Il nastro-lama fischiava fendendo l'aria; ronzava salendo verso l'alto; il suo movimento, soprattutto le sue ondulazioni, era controllato con freddezza assoluta. Quando la donna finì di parlare, il loro capo ordinò ai tre di rialzarsi. Pie ubbidì, lanciando un'occhiata alle proprie spalle verso Gentle e Huzzah, affinché si alzassero a loro volta.

"Ci uccideranno?" mormorò Huzzah.

Gentle le prese la mano. "No, non lo faranno. E se mai cercassero di farlo ho un paio di trucchi da far partire dai miei polmoni."

"Per favore, Gentle... stai zitto," lo scongiurò Pie.

Il capo del drappello disse una sola parola e zittì tutti; Pie rispose alla sua domanda successiva dicendo i nomi dei suoi due compagni di viaggio: Huzzah Aping e John Furie Zacharias. Ci fu a quel punto un altro scambio di parole tra i membri del drappello, e Pie ne approfittò per dare una minima spiegazione ai suoi amici.

"È una situazione molto delicata," disse.

"Credo di averlo intuito."

"La maggior parte della mia gente se n'è andata dal Kesparate."

"Dove?"

"Alcuni sono stati torturati, altri uccisi. Altri ancora sono stati fatti prigionieri e ora lavorano come schiavi."

"Ma adesso una pecorella smarrita è tornata. Perché non sono felici di vederti?"

"Credono che io sia una spia o un pazzo. Nell'uno o nell'altro caso, rappresento comunque un pericolo per loro. Mi terranno qui per interrogarmi. L'alternativa è l'esecuzione sommaria."

"Be', bentornato a casa!" ironizzò Gentle.

"Almeno qualcuno è ancora vivo. Quando siamo arrivati qui, ho pensato..."

"So che cosa hai pensato. Anch'io l'ho pensato. Parlano inglese?"

"Certo. Ma non lo parleranno adesso per una questione di orgoglio," rispose Pie.

"Ma mi capiscono?" insistette Gentle.

"Non farlo, Gentle..." lo ammonì Pie.

"Voglio solo dire loro che non siamo nemici," disse Gentle, e si rivolse al drappello. "Sapete già come mi chiamo. Sono qui con Pie'oh'pah perché pensavamo di trovarvi degli amici. Non siamo spie. Non siamo assassini," continuò Gentle.

"Lascia stare, Gentle," ripeté Pie.

"Abbiamo camminato a lungo per arrivare fin qui, Pie e io. Veniamo dal Quinto. E sin dall'inizio il sogno di Pie è stato quello di rivedere la sua gente. Capite? Voi siete il motivo per cui Pie ha viaggiato tanto, per trovarvi."

"Non gliene importa, Gentle," disse Pie.

"Deve importargliene, invece."

"Il Kesparate è loro," ribatté Pie. "Lasciali fare a modo loro."

Gentle si soffermò su questo per un momento. Poi aggiunse: "Pie ha ragione. Il Kesparate è vostro e noi siamo solo dei visitatori qui. Ma io desidero che voi sappiate una cosa." Volse lo sguardo sulla donna che aveva fatto danzare il nastro-lama così pericolosamente vicino alla testa del mystif. "Pie è mio amico," aggiunse. "E io lo proteggerò fino all'ultimo."

"Non fai che peggiorare la situazione," intervenne il mystif. "Per favore, smettila."

"Credevo che ti avrebbero accolto a braccia aperte," ribatté Gentle scrutando le espressioni impassibili di quei quattro. "Ma che cos'hanno?"

"Stanno cercando di proteggere quel poco che è loro rimasto," disse Pie. "L'Autarca ha mandato qui delle spie. Ci sono stati omicidi e rapimenti. Bambini portati via e di cui sono appena tornate soltanto le teste."

"Oh Gesù!" esclamò Gentle accennando a un inchino in segno di scusa. "Mi dispiace," aggiunse, non solo rivolto a Pie, ma a tutti. "Volevo solo dire la mia."

"Bene, adesso l'hai detta. Lascia fare a me ora, d'accordo? Dammi un paio d'ore e riuscirò a convincerli che abbiamo detto la verità."

"Naturalmente, se è questo quello che vuoi. Huzzah e io ti aspettiamo qui finché non avrai messo tutto a posto."

"Non qui," intervenne Pie. "Non credo che sia il posto più adatto."

"Perché no?"

"Perché no," rispose Pie con una certa impazienza nella voce.

"Hai paura che nonostante tutto ci uccidano, vero?"

"Be'... sì, ho ancora qualche dubbio."

"E allora andiamocene tutti immediatamente."

"È fuori questione. Io rimango e voi andate. Non abbiamo altra scelta. Non hanno nessuna intenzione di stare qui a trattare."

"Capisco," disse Gentle.

"Andrà tutto bene," aggiunse Pie. "Perché non andate a quel caffè dove abbiamo fatto colazione stamattina? Ti ricordi come arrivarci?"

"Io sì," affermò Huzzah, che per tutto quel tempo aveva tenuto gli occhi fissi a terra. Ora aveva sollevato lo sguardo e i suoi occhi erano pieni di lacrime.

"Aspettami là, angelo," disse Pie chiamandola per la prima volta con l'epiteto che usava Gentle. "Tutti e due, angeli miei."

"Se non sarai arrivato per il tramonto, torneremo noi a prenderti," annunciò Gentle. Dicendo questo, fissò l'amico negli occhi, il sorriso sulle labbra e la minaccia nello sguardo.

Il mystif gli porse la mano. Gentle la prese e lo attirò verso di sé.

"È la cosa più giusta da fare?" chiese.

"Qualsiasi altra cosa sarebbe affrettata," rispose Pie. "Credimi."

"L'ho sempre fatto. Lo farò sempre," dichiarò Gentle.

"Siamo fortunati, Gentle," aggiunse ancora Pie.

"Perché?"

"Perché abbiamo potuto passare questo tempo insieme."

Gentle incontrò lo sguardo del mystif e capì che quelle parole non erano un semplice saluto, ma un addio che lui non voleva accettare. Nonostante le sue frasi ottimistiche, il mystif era tutt'altro che certo che si sarebbero rivisti ancora.

"Ci rivedremo tra poche ore, Pie," disse Gentle. "Ci conto, Hai capito? Abbiamo fatto un voto, ricordalo."

Pie annuì e lasciò la mano del compagno. La mano più piccola e più calda di Huzzah era pronta a prendere il suo posto.

"È meglio che andiamo, angelo," disse Gentle, e spinse Huzzah verso il cancello lasciando Pie in balia del drappello.

Huzzah si voltò indietro due volte ma Gentle resistette alla tentazione. A Pie non sarebbero piaciuti i sentimentalismi in un momento del genere. Era meglio procedere con la convinzione che si sarebbero ritrovati di lì a poche ore e avrebbero preso il caffè insieme all'Oke T'Noon. Al cancello, però, non seppe resistere e si girò verso la strada delimitata dagli alberi in fiore per guardare un'ultima volta la creatura che amava. Ma il drappello dei giustizieri era già sparito dentro il cianculi e aveva portato con sé quel figliol prodigo.

 

32

 

I

 

Molte ore ancora sarebbero passate prima che il lungo crepuscolo yzordderrexiano si trasformasse in notte, e l'Autarca si scelse una camera vicino alla Torre del Cardine, dove la luce del giorno non poteva arrivare. Lì le consolazioni che il kreauchee gli procurava non venivano guastate dalla luce. Era facile illudersi che tutto fosse un sogno e, essendo un sogno, non valeva certo la pena di prendersela se - o meglio quando - fosse svanito. Rosengarten però, con il suo intuito infallibile, scoprì il rifugio dove il suo padrone si era rintanato e quindi poté comunicargli le ultime novità, di gran lunga peggiori della luce più intensa. L'arrivo di Quaisoir aveva trasformato il tentativo di sradicare senza troppo chiasso la cellula dei Dearther guidata da Padre Athanasius in uno spettacolo all'aperto. Quell'arrivo aveva dato la stura a una serie di violenze che non si erano ancora placate. Le truppe che avevano organizzato l'assedio erano state massacrate probabilmente fino all'ultimo uomo, anche se non era possibile verificarlo perché gli accessi al porto erano stati ostruiti dai rivoltosi con barricate di fortuna.

"Questo è il segnale che le fazioni aspettavano da tempo," disse Rosengarten. "Se non mettiamo a tacere tutto immediatamente, anche la più insignificante setta del Dominio potrà annunciare ai propri discepoli che il Giorno è arrivato."

"Il Giorno del Giudizio, eh?"

"Sì, è proprio quello che diranno."

"Forse hanno ragione," rispose l'Autarca. "Perché non lasciamo che per un po' si ammazzino tra loro? Gli uni contro gli altri. Gli Scintillanti odiano i Dearther, i Dearther odiano gli Zenetici. Tutt'al più si taglieranno la gola tra fanatici."

"Ma la città, signore..."

"La città! La città! Che cosa me ne importa di questa stupida città! È finita, Rosengarten. Non lo vedi? Ero qui e pensavo: se potessi far venire la Cometa qui sopra, lo farei. Lascia che questa città muoia nel modo in cui è vissuta: sontuosamente. Cosa c'è di tanto tragico, Rosengarten? Ci saranno altre città. Io posso costruire un'altra Yzordderrex."

"Forse allora sarebbe meglio che lei si mettesse in salvo prima che i tumulti diventino completamente incontrollabili."

"Perché, non siamo al sicuro qui?" domandò l'Autarca. Seguì un silenzio. "Non ne sei così certo, vero?" aggiunse.

"C'è troppa violenza lì fuori."

"E tu pensi che sia stata lei a scatenarla?"

"Così era nell'aria."

"Ma è stata lei la scintilla che ha fatto esplodere la rivolta?" Sospirò. "Oh, che vada all'inferno, all'inferno. Vai a chiamare i generali."

"Tutti quanti?"

"Mattalus e Racidio. Loro sanno come trasformare questo palazzo in una fortezza."

L'Autarca si alzò. "Io andrò a fare due chiacchiere con la mia amata moglie."

"La troviamo là, poi?"

"No, a meno che non vogliate assistere a un omicidio, no."

 

L'Autarca trovò le stanze di Quaisoir di nuovo vuote, ma questa volta Concupiscentia, che non faceva più la civettuola ma tremava e aveva gli occhi asciutti (cosa che, per la specie cui apparteneva equivaleva a essere in lacrime), sapeva dove fosse la padrona: nella sua cappella privata. L'Autarca vi si precipitò e trovò Quaisoir che accendeva candele all'altare.

"Ti stavo cercando," disse.

"Sì, ti ho sentito," rispose la regina. La sua voce, che un tempo pronunciava parole incantevoli, era adesso scialba quanto lei.

"Perché non hai risposto allora?"

"Stavo pregando." Spense l'attizzatoio che aveva in mano e gli voltò le spalle, girandosi verso l'altare. Anche l'altare, come la sua camera, era un ricettacolo di eccessi. Un Cristo intagliato e colorato pendeva da una croce dorata circondata da cherubini e serafini.

"Per chi stavi pregando?" le chiese.

"Per me stessa," rispose semplicemente Quaisoir.

L'Autarca l'afferrò per una spalla facendola girare su se stessa. "E che cosa mi dici degli uomini che sono stati uccisi dalla folla? Non hai preghiere per loro?"

"Quelli hanno già qualcuno che prega per loro. Gente che li ha amati. Io non ho nessuno."

"Oh, mi piange il cuore," ironizzò l'Autarca.

"No, non è vero," rispose Quaisoir, "Ma l'Uomo delle Pene piange per me."

"Dubito, signora mia," disse, più divertito che irritato dalla sua autocommiserazione.

"L'ho visto oggi," continuò Quaisoir.

Quella era un'altra vanteria. L'Imperscrutato pensò di assecondarla. "Dove l'hai visto?" La domanda aveva un tono di interesse sincero.

"Al porto. È apparso su un tetto, proprio sopra di me. Gli hanno sparato ed è stato colpito. Almeno, io ho visto che l'avevano colpito. Ma quando sono andati a cercare il corpo, era sparito."

"Dovresti andare giù ai Bastioni con le altre pazze," le disse. "Potresti aspettare là l'Apocalisse. Ordinerò che venga trasportato tutto giù, se vuoi."

"Sarà lui a venire qui da me," rispose lei. "Lui non ha paura. Sei tu quello che ha paura."

L'Autarca si guardò il palmo. "Sto forse sudando? No. Sono forse in ginocchio davanti a Lui per implorarlo di avere pietà di me? No, Accusami pure dei crimini peggiori e probabilmente mi troverai colpevole. Ma non accusarmi di avere paura. Mi conosci, dovresti saperlo."

"Lui è qui a Yzordderrex."

"E allora fallo venire. Io non me ne andrò. Mi troverà qui se mi odia tanto. Ma non mi troverà a pregare, non so se mi spiego. Forse a pisciare, e allora bisognerà vedere se riesce a sostenere quella vista." L'Autarca afferrò la mano di Quaisoir e se la mise in mezzo alle gambe. "Forse potrebbe scoprire di essere lui il meno dotato." Rise. "Pregavi per poterlo toccare, non te lo ricordi, signora mia? Di', te lo ricordi?"

"Sì, lo confesso."

"Non è un crimine. Siamo fatti tutti della stessa pasta. Che cosa possiamo fare se non sopportare?" Tutto a un tratto, le si avvicinò. "Non credere che mi potrai lasciare per Lui. Noi ci apparteniamo. Il male che fai a me lo fai a te stessa. Riflettici. Se i nostri sogni bruceranno, be', allora arrostiremo insieme."

Il messaggio era evidente, Quaisoir non lottò per liberarsi da quell'abbraccio, ma scosse la testa con terrore.

"Non voglio toglierti le tue consolazioni. Tieniti pure l'Uomo delle Pene, se ti aiuta a dormire. Ma ricorda che la nostra carne è unita. Qualsiasi ripensamento tu abbia avuto giù ai Bastioni, non cambia la pasta di cui sei fatta."

"Le preghiere non bastano..." disse la regina, a bassa voce, quasi parlando a se stessa.

"Le preghiere sono inutili."

"Allora devo trovarlo. Andare da Lui. Mostrargli la mia adorazione."

"Tu non vai da nessuna parte," precisò l'Autarca.

"Ma io devo. È l'unico modo. È qui in città e mi sta aspettando."

Quaisoir cercò di allontanare l'Autarca da sé.

"Andrò da Lui vestita di stracci," disse, e cominciò a strapparsi i vestiti di dosso. "O nuda! sì, meglio nuda!"

L'Autarca non tentò di fermarla, ma fece un passo indietro come se quella pazzia fosse contagiosa, e lasciò che la donna si strappasse i vestiti e si graffiasse a sangue, in preda alla violenza della sua mattana. Quaisoir si mise a pregare ad alta voce, preghiere piene di promesse di andare da Lui, di inginocchiarsi al Suo cospetto e implorazioni a perdonarla. Si voltò verso l'altare per continuare con le esortazioni, ma l'Autarca di fronte a quell'isterismo perse la pazienza, l'afferrò per i capelli e la tirò verso di sé.

"Tu non mi stai ascoltando!" urlò, la compassione e il disgusto vinti da una rabbia che nemmeno il kreauchee riusciva a frenare. "C'è un solo Signore a Yzordderrex!"

La spinse da parte e in tre balzi salì gli scalini che portavano all'altare. Lì, con un unico movimento del braccio, spazzò via tutte le candele e poi, salendo con i piedi sull'altare, afferrò il crocifisso.

Quaisoir si alzò per tentare di fermarlo, ma né le sue implorazioni né i suoi pugni riuscirono a fermarlo. Il serafino dorato si staccò per primo, strappato dalle nuvole intagliate, e finì scaraventato a terra. Poi l'Autarca infilò una mano dietro la testa del Salvatore e tirò. La corona del Cristo era «tata meticolosamente intarsiata e le spine rigarono di sangue le mani e le dita dell'Autarca, ma il dolore servì soltanto a dare maggior vigore ai suoi nervi, e uno schiocco del legno schiantato annunciò la sua vittoria. Il crocifisso si staccò dal muro e l'Autarca si limitò a spostarsi di quel tanto che bastava per permettere alla forza di gravita di fare il resto. Per un attimo temette che Quaisoir volesse buttarsi sotto quel peso in caduta libera, ma un secondo prima che il crocifisso raggiungesse il terreno la vide inciampare sulle scale dell'altare. Il crocifisso cadde in mezzo agli angeli in pezzi minuti, e si infranse crollando sul pavimento di pietra.

Tutto quel baccano attirò naturalmente dei testimoni. Dall'altare l'Autarca vide Rosengarten correre verso di lui lungo la navata imbracciando il fucile.

"È tutto a posto, Rosengarten!" gli gridò ansante. "Il peggio è passato."

"Ma lei sanguina, signore," disse Rosengarten.

L'Autarca si succhiò la mano che sanguinava. "Fai scortare mia moglie nelle sue stanze," ordinò, e poi sputò il sangue pieno di scaglie dorate. "Non deve esserle lasciato nulla di tagliente, né altri oggetti con cui possa farsi male. Temo che sia molto malata. Dovremo assisterla giorno e notte, d'ora in poi."

Quaisoir era inginocchiata sul crocifisso infranto e piangeva disperata.

"Ti prego, mia signora," disse l'Autarca, saltando giù dall'altare e piegandosi su di lei per sollevarla. "Perché sprechi le tue lacrime su un morto? La venerazione è nulla, signora mia, a meno che..." si interruppe stuzzicato da quelle parole, poi riprese: "... a meno che non adori te stessa."

Quaisoir sollevò il viso, asciugandosi le lacrime e guardandolo.

"Ti farò portare un po' di kreauchee," aggiunse l'Autarca. "Così ti calmerai."

"Non voglio il kreauchee," mormorò lei con un tono di voce assolutamente incolore. "Voglio il perdono."

"E allora io ti perdonerò," le rispose lui con assoluta sincerità.

"Non lo voglio da te," disse lei.

L'Autarca si soffermò a osservare tutto quel dolore.

"Dovevamo amarci e vivere per sempre insieme," disse dolcemente. "Quando sei diventata così vecchia?"

Lei non rispose e l'Autarca la lasciò così, in ginocchio tra i pezzi del crocifisso. L'attendente di Rosengarten, Seidux, era già arrivato per prenderla in consegna.

"Abbi rispetto per lei," disse l'Autarca a Seidux mentre già si avviava. "È stata una gran donna un tempo."

L'Autarca non restò a vederla portar via, ma andò con Rosengarten a incontrare i generali Mattalaus e Racidio. Si sentiva meglio dopo quella scenata. Sebbene come ogni grande Maestro anche l'Autarca non fosse toccato dai segni dell'età, il suo organismo cominciava a dare i primi segni di cedimento e di tanto in tanto aveva bisogno di uno stimolo forte. E quale stimolo migliore del distruggere gli idoli?

Mentre passavano davanti a una finestra che dava sulla città, la persiana si aprì di colpo, consentendo loro di vedere la distruzione all'esterno. Nonostante tutti i suoi discorsi altisonanti sulla sua capacità di costruire un'altra Yzordderrex, l'Autarca sentì che sarebbe stato doloroso assistere alla sua distruzione totale, Kesparate dopo Kesparate. Già una decina di colonne di fumo s'innalzavano dalle esplosioni che si succedevano in tutta la città. Nel porto c'erano navi in fiamme e tutt'intorno alla cosiddetta via Ghiotta erano stati incendiati i bordelli. Come Rosengarten aveva previsto, tutti gli apocalittici della città avrebbero visto realizzarsi le loro profezie quello stesso giorno. Coloro i quali sostenevano che la corruzione veniva dal mare, bruciavano le navi; quelli che se la prendevano con il sesso avevano acceso le loro torce per dare alle fiamme i bordelli. L'Autarca si girò verso la cappella di Quaisoir e udì la consorte scoppiare di nuovo in un pianto disperato.

"Meglio lasciarla piangere," disse. "In fondo, ne ha tutte le ragioni."

 

II

 

I danni che Dowd si era procurato prendendo in corsa l'Yzordderrex Express non divennero evidenti fino al suo arrivo nella cantina piena di icone che si stendeva sotto la casa del commerciante. Anche se era riuscito a evitare di farsi rivoltare come un guanto, quel passaggio l'aveva ferito piuttosto gravemente. Sembrava che fosse stato trascinato a faccia in giù su una strada appena asfaltata. La pelle del volto e delle mani era completamente tagliuzzata e lasciava intravedere i muscoli da cui trasudava la disgustosa soluzione che gli scorreva nelle vene. Quando Jude lo aveva visto sanguinare per la ferita che si era procurato da sé, non le era sembrato che soffrisse; stavolta, però, pareva di sì. Sebbene la tenesse stretta per un polso senza nessuna intenzione di mollare la presa, e minacciasse, se avesse tentato di sfuggirgli, di ucciderla in un modo tale che quello di Clara al confronto sarebbe parso indolore, Dowd era stavolta un carceriere vulnerabile che sobbalzava per il dolore mentre la trascinava su per le scale verso i piani superiori della casa.

Non era certo questo il tipo d'ingresso che Judith immaginava di fare a Yzordderrex. Ma non si sarebbe mai neppure sognata la scena che vide quando arrivò in cima alle scale. O meglio, era fin troppo immaginabile. La casa dove in quel momento non c'era nessuno era grande e luminosa, la struttura e l'arredamento erano tanto riconoscibili quanto deprimenti. Judith ricordò che si trattava della casa del socio in affari di Oscar, Peccable; ed è naturale che l'influenza dell'estetica del Quinto Dominio fosse così accentuata in un'abitazione che in cantina possedeva una porta segreta che conduceva sulla Terra. L'immagine di felicità domestica che quell'interno evocava era però assai deludente. L'unico tocco di esotismo era costituito dal pappagallo che stava accovacciato sul trespolo vicino alla finestra; per il resto, sembrava di essere finiti in un buco di periferia: fotografie di famiglia accanto all'orologio sulla mensola del camino e tulipani quasi appassiti nel vaso sul tavolo della sala accuratamente tirato a lucido. Judith era sicura che nelle strade, fuori da quella casa, ci fossero cose ben più interessanti, ma Dowd non era né nello spirito né nelle condizioni di andare in esplorazione. Le disse che avrebbero aspettato lì fin quando lui non si fosse sentito meglio: se nel frattempo fosse tornato qualche membro di quella famiglia, lei avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa. Avrebbe parlato solo lui, precisò, altrimenti non soltanto la sua vita sarebbe stata in pericolo, ma anche quella di tutta la famiglia di Peccable.

Jude sapeva che Dowd era capace di commettere qualsiasi violenza, soprattutto in quel momento di dolore fisico che, tra l'altro, chiese di essere aiutato a mitigare. Judith gli lavò il viso con alcuni asciugamani trovati in cucina e imbevuti d'acqua. La ferita era purtroppo molto più superficiale di quanto lei avesse sperato all'inizio e, una volta pulito, Dowd iniziò subito a dare i primi segni di recupero. Jude si trovava ora di fronte a un dilemma. Dato che Dowd stava evidentemente guarendo a velocità sovrumana, se lei aveva intenzione di sfruttare la sua vulnerabilità e quindi di fuggire, doveva agire in fretta. Però, anche se fosse riuscita a scappare da quella casa, ci sarebbe dovuta tornare per rivolgersi alla sola guida della città su cui potesse contare. E, cosa ancora più importante, ci sarebbe dovuta tornare perché quello era il luogo in cui sperava di vedere Oscar venirle incontro dopo aver attraversato l'In Ovo. Non poteva permettersi di correre il rischio che Oscar arrivasse e scoprisse che lei non c'era più, che era uscita da sola a spasso per una città la quale, a quanto si diceva, era così grande che due persone avrebbero potuto cercarsi a vicenda per dieci vite senza incrociarsi mai.

 

Passò qualche tempo prima che si alzasse un po' di vento e sulla porta si presentasse un membro della famiglia di Peccable: una ragazza alta e snella, sui vent'anni, vestita con un lungo cappotto e un abito stampato a fiori, che salutò 1 due stranieri con finto entusiasmo, notando che uno di loro era ferito.

"Siete amici di papà?" domandò togliendosi gli occhiali e mostrando così gli occhi, fortemente strabici.

Dowd rispose di sì e cominciò a spiegare come erano giunti sin lì, ma la ragazza lo interruppe chiedendogli di aspettare un minuto: doveva chiudere le imposte perché era in arrivo un temporale. Si rivolse a Jude per chiederle aiuto e Dowd non sollevò alcuna obiezione, sicuro che la sua prigioniera non si sarebbe certo avventurata in una città sconosciuta mentre era in arrivo una tempesta. Così, con le prime ventate che già si abbattevano sulla porta, Jude seguì Hoi Polloi in tutta la casa e l'aiutò a serrare ermeticamente tutte le finestre che fossero anche soltanto socchiuse, chiudendo pure le imposte per evitare che il vento rompesse i vetri. Sebbene le folate stessero già sollevando la sabbia e nascondendo il panorama, Judith riuscì a scorgere qualcosa della città di Yzordderrex. Fu un'occhiata terribilmente veloce, ma sufficiente a garantirle che, quando fosse finalmente riuscita a camminare per le strade di quella città, tutti quei dolorosi mesi di attesa sarebbero stati compensati da enormi meraviglie.

C'era una miriade di strade che si arrampicavano sulle erte sovrastanti l'abitazione e conducevano verso le mura e le torri monumentali di quello che Hoi Polloi aveva chiamato il "palazzo dell'Autarca". Dalla finestra della soffitta poi si poteva intravedere l'oceano, quasi scintillante nella tempesta che incalzava. Tutte visioni - oceano, tetti e torri - comuni anche nel Quinto. Ciò che distingueva quel posto da un altro Dominio erano le persone nelle strade: solo alcune di esse avevano sembianze umane, sebbene tutte indistintamente cercassero in quel momento di mettersi al riparo dal vento e dai disastri che la tempesta portava con sé. Una creatura macrocefala si trascinava per la strada portando sotto le braccia due animali che, pur assomigliando a maiali con il gnigno prominente, continuavano ad abbaiare. Un gruppo di giovani, calvi e ben vestiti, correvano nella direzione opposta e facevano ruotare sopra le loro teste dei turiboli fumanti come fossero bolas. Un uomo dalla barba color giallo canarino e la pelle bianca come quella di una bambola cinese, ferito ma ancora urlante, fu portato dentro una casa di fronte.

"Dappertutto sono scoppiate rivolte," disse Hoi Polloi. "Vorrei che papà tornasse presto a casa."

"Dov'è?" le chiese Judith.

"Giù al porto. Doveva aspettare un carico che arrivava dalle isole."

"Non puoi telefonargli?"

"Il telefono?" ripeté Hoi Polloi.

"Sì, sai quello..."

"So che cos'è," la interruppe Hoi Polloi stizzosamente. "Lo zio Oscar me ne ha mostrato uno, una volta. Ma sono contro la legge qui."

"Perché?"

Hoi Polloi alzò le spalle. "La legge è legge," disse poi. Guardò fuori la tempesta prima di chiudere l'ultima finestra. "Papà starà attento," continuò. "Glielo dico sempre di stare attento, e lui mi dà retta."

Ritornarono al piano inferiore e trovarono Dowd seduto sul primo gradino della porta d'ingresso, spalancata. Da fuori soffiava con furia un'aria calda e intrisa di sabbia che aveva odore di spezie e di spazi lontani. Hoi Polloi ordinò a Dowd di rientrare immediatamente e lo fece con un tono così perentorio che Jude temette per un attimo la reazione di Dowd, il quale, invece, sembrava essere contento di giocare a fare l'ospite pasticcione e ubbidì. La ragazza sbatté la porta e la chiuse a chiave, poi chiese se qualcuno voleva del tè. Con i lampadari che ballavano e il vento che si abbatteva furibondo su ogni imposta era difficile fare finta che tutto fosse normale, ma Hoi Polloi fece del suo meglio per mantenere viva la conversazione mentre faceva riposare il Darjeeling nella teiera e offriva contemporaneamente fette di torta al madeira. L'incredibile assurdità della situazione cominciò a divertire Judith. Stavano per bere tranquillamente una tazza di tè mentre una città piena di stranezze sconosciute era preda al tempo stesso di una tempesta e di una rivoluzione. Se Oscar fosse apparso in quel momento, pensò Judith, si sarebbe divertito davvero. Si sarebbe accomodato, avrebbe inzuppato la torta nel tè e avrebbe parlato di cricket, come un perfetto gentiluomo inglese.

"Dov'è il resto della tua famiglia?" chiese Dowd a Hoi Polloi, quando la conversazione tornò di nuovo sul padre assente.

"Mamma e i miei fratelli sono andati in campagna per tenersi lontani dai disordini di qua," rispose la ragazza.

"E tu perché non sei andata con loro?"

"Non se qui rimane papà. Qualcuno deve pur occuparsi di lui. È abbastanza prudente ma io devo ripeterglielo sempre."

Una ventata particolarmente violenta fece cadere alcune tegole che, nello staccarsi dal tetto, fecero un rumore simile a colpi d'arma da fuoco. Hoi Polloi fece un salto per lo spavento.

"Se papà fosse qui, sono sicura che suggerirebbe di prendere qualcosa per calmarci i nervi," aggiunse.

"Che cosa consigli, piccola?" disse Dowd. "Forse un po' di brandy? È quello che porta Oscar di solito, non è vero?"

La ragazza annuì, andò a prendere una bottiglia e versò un po' di brandy a tutti e tre, in bicchieri piccoli.

"Ci ha portato anche Dotterei," aggiunse Hoi Polloi.

"Chi è Dotterei?" domandò Judith.

"Il pappagallo. Me lo ha regalato quando ero piccola. C'era anche una pappagallina, ma la bestia che sta dai vicini se l'è mangiata. Quel bastardo! Adesso Dotterei è tutto solo e infelice. Ma Oscar mi porterà presto un altro pappagallo. Me lo ha promesso. Una volta ha portato delle perle per la mamma, mentre a papà porta sempre giornali. A papà piace molto leggere i giornali."

Hoi Polloi continuò a parlare su questo tono per un bel po' senza mai interrompersi. Nel frattempo i bicchieri erano stati riempiti, vuotati e riempiti più volte, e il liquore stava cominciando a fare effetto sulla concentrazione di Judith. In verità trovava il monologo e il movimento appena percettibile della lampada sopra la sua testa incredibilmente soporiferi, tanto che alla fine chiese se poteva sdraiarsi un attimo. Dowd non fece alcuna obiezione e lasciò che Hoi Polloi la accompagnasse nella camera degli ospiti rivolgendole non più di uno strascicato "Dormi bene, cara".

Judith si coricò, contenta di appoggiare la testa che le ronzava, e pensò, già sonnolenta, che le conveniva dormire un po' adesso, perché tanto non sarebbe potuta uscire con la tempesta che imperversava nelle strade della città. Quando la tempesta fosse finita, invece, avrebbe iniziato la sua spedizione con o senza Dowd. Oscar non sarebbe più venuto a cercarla, ormai ne era quasi sicura. Forse si era procurato ferite troppo gravi per riprendere il cammino, oppure l'Espresso su cui avevano viaggiato era stato in qualche modo danneggiato dalla precipitosa salita di Dowd. In ogni caso lei non poteva più aspettare. Quando si fosse svegliata, emulando le forze della natura che imperversavano là fuori, si sarebbe avventata su Yzordderrex come una tempesta.

 

Sognò di trovarsi in un posto di immenso dolore. Era una stanza scura, le imposte chiuse a difesa dalla tempesta che imperversava fuori dalla camera in cui stava dormendo e sognando... eppure consapevole di star dormendo e sognando. Nella stanza si sentiva il lamento di una donna che stava piangendo. Il dolore era così palpabile da indurla ad alzarsi per alleviarlo, sia per se stessa che per la donna che soffriva. Si diresse nel buio verso quel lamento e dovette spostare una gran quantità di tende, tutte sottili come garze, come se in quella stanza fossero appesi i veli di un centinaio di spose. Prima che Judith potesse trovare la donna che piangeva, una figura si mosse davanti a lei nell'oscurità, si avvicinò al letto in cui giaceva la donna e le sussurrò: "Kreauchee..." Tra i veli Jude fu in grado di intravedere quella figura dalla parlata blesa.

Jude non aveva mai nemmeno sognato una figura più bizzarra di quella. La creatura era pallida anche nell'oscurità, nuda, e dalla schiena le usciva una miriade di code. Jude fece qualche passo in avanti per vederla meglio e anche la creatura si accorse allora della presenza di un estraneo, perché si guardò intorno come se si aspettasse di scorgere un fantasma. Quando parlò, nella sua voce si percepiva un segnale d'allarme.

"C'è quacuno qui, signora," disse.

"Non vedo nessuno. Nemmeno Seidux," rispose Quaisoir.

"No Seidux. No vede nessuno ma sente quacuno qui."

Il lamento si calmò. La donna guardò in alto. C'erano altri veli tra Jude e il viso della dormiente e la camera era veramente buia, ma Judith comunque sapeva riconoscere i propri lineamenti quando li vedeva, anche se i capelli erano appiccicati per il sudore e gli occhi gonfi di pianto. Judith non indietreggiò spaventata a quella vista. Rimase, invece, ferma e immobile come uno spirito tra le tende di garza a osservare quella donna con il suo stesso viso alzarsi dal letto. Judith era confusa.

"Ha mandato un angelo," disse Quaisoir alla creatura che le sedeva accanto. "Concupiscentia... Lui ha mandato un angelo a prendermi."

"Sì?"

"Sì, sicuro. Questo è un segno. Sarò perdonata."

Un rumore alla porta attirò l'attenzione della donna. Un uomo in uniforme, il viso illuminato solo dalla sigaretta accesa che teneva fra le labbra, si presentò sulla soglia.

"Vattene," gli ordinò Quaisoir.

"Sono venuto a vedere se aveva bisogno di qualcosa, Quaisoir."

"Ho detto vattene, Seidux."

"Se avesse bisogno di qualcosa..." continuò Seidux.

A un tratto Quaisoir si alzò in piedi e si avventò, spostando i veli, sull'uomo. Quella reazione improvvisa prese alla sprovvista non solo Judith ma anche Seidux. Per quanto Quaisoir fosse più bassa del suo carceriere, non mostrò di temerlo in alcun modo. Gli strappò la sigaretta dalle labbra.

"Non voglio che mi guardi," gli urlò. "Vattene. Capito? O devo mettermi a urlare che mi stai violentando?"

Mentre diceva così, cominciò a strapparsi i vestiti di dosso e a mettere in mostra i seni. Seidux se ne andò confuso, distogliendo lo sguardo.

"Come vuole!" disse uscendo dalla camera. "Come vuole!"

Quaisoir sbatté la porta dietro di lui e rivolse di nuovo la sua attenzione alla camera e ai suoi fantasmi.

"Dove sei, spirito?" sussurrò con dolcezza, spostando le tende leggere. "Te ne sei andato? No, non andartene." Si girò verso Concupiscentia. "Senti ancora che è qua?" La creatura sembrava troppo spaventata per poter rispondere. "Io non sento più niente," aggiunse Quaisoir, immobile tra i veli. "Maledetto Seidux! Ha fatto fuggire lo spirito!"

Non avendo modo di contraddirla, tutto ciò che Jude poteva fare era aspettare accanto al letto e sperare che l'effetto dell'irruzione di Seidux - cioè il fatto che le aveva rese praticamente cieche alla sua presenza - svanisse ora che l'uomo era stato allontanato da quella camera. Adesso ricordava che Clara le aveva raccontato del potere di distruzione che gli uomini possedevano. Non ne aveva appena avuto una prova? La sola presenza di Seidux era stata sufficiente per rompere il contatto tra uno spirito sognante e uno spirito desto. Certo, Seidux aveva causato tutto quello senza volerlo, completamente all'oscuro del potere che possedeva, ma non per questo era meno colpevole. Quante volte in un giorno lui e il resto della sua specie - Clara non le aveva detto che appartenevano a un'altra specie? - rovinavano e distruggevano insensibilmente, si chiese Judith, l'unione di altre nature?

Quaisoir sprofondò di nuovo nel letto lasciando a Judith il tempo di riflettere sul mistero del suo viso. Sin da quando era entrata in quella camera non aveva dubitato che stesse ripetendo un viaggio simile a quello che aveva già fatto nella Torre, sfruttando la libertà che lo stato di sogno le concedeva per muoversi invisibile al mondo reale. La sconcertò per un attimo anche il fatto di non aver più bisogno dell'occhio blu per facilitare i suoi movimenti. Quello che la interessava adesso era capire perché quella donna avesse il suo stesso viso. Che quel Dominio fosse in qualche modo una sorta di specchio di quello che aveva lasciato? E se non era così - se lei era effettivamente l'unica donna del Quinto ad avere nel Primo una sosia perfetta - che significato aveva?

Il vento cominciava a calare e Quaisoir ordinò alla sua ancella di aprire le imposte della finestra. L'atmosfera era ancora impregnata di una polvere rossastra e, spostandosi verso il davanzale accanto alla strana creatura, Jude vide un panorama che, se avesse avuto fiato in quello stato di sogno, glielo avrebbe tolto di sicuro. Da lì si dominava la città: la stanza si trovava in una delle torri che Judith aveva intravisto brevemente quando, nella casa di Peccable, era andata in giro con Hoi Polloi a chiudere le finestre e le imposte. Non aveva solo Yzordderrex davanti agli occhi ma anche i segni di distruzione della città. Fuori delle mura del palazzo si notavano una decina di incendi in posti diversi e, dentro le mura, le truppe dell'Autarca che si radunavano nel cortile. Volgendo di nuovo lo sguardo su Quaisoir, Jude notò per la prima volta la ricchezza di quella camera. Le pareti erano tappezzate e non c'era un solo pezzo di mobilio che non spiccasse per lusso. Se quella era una prigione, allora era una prigione degna di un monarca.

Quaisoir si avvicinò alla finestra e guardò il panorama di incendi.

"Devo trovarlo," disse. "Lui ha mandato un angelo che avrebbe dovuto condurmi al Suo cospetto e Seidux lo ha spaventato e fatto fuggire. Perciò sono io che ora devo andare da Lui. Stasera..."

Jude, intenta a osservare l'opulenza di quella stanza, l'ascoltò distrattamente, perché cercava di capire che cosa potesse rivelarle della sua sosia, Aveva l'impressione che quella donna con il suo stesso viso fosse una donna particolare; una persona dotata di poteri che in quel momento le erano interdetti, ma che aveva già in mente di rompere le catene che la immobilizzavano. La ragione per cui voleva agire sembrava essere una storia d'amore. Probabilmente c'era un uomo giù in città con il quale lei desiderava disperatamente riunirsi: un amante che le aveva mandato degli angeli per sussurrarle all'orecchio dolci sciocchezze. Che tipo di uomo sarà, si chiese Judith. Forse un Maestro, un detentore della magia?

Dopo aver studiato la città per un po', Quaisoir si allontanò dalla finestra e si recò nel guardaroba.

"Non posso presentarmi a Lui in questo stato," disse cominciando a svestirsi. "Sarebbe una vergogna."

La donna colse la propria immagine riflessa, si sedette e guardò con disgusto la figura che lo specchio le rinviava. Le lacrime le avevano impiastricciato l'ombretto attorno agli occhi, aveva le guance e il collo chiazzati. Prese un batuffolo di cotone dal tavolo da trucco, lo imbevve con un po' di latte detergente e iniziò a pulirsi il viso.

"Andrò da Lui nuda," affermò sorridendo in anticipo all'idea. "Sicuramente mi preferirà così."

Quell'amante misterioso incuriosiva sempre di più Judith. Udendo la propria voce sensuale parlare di nudità, si sentì tentare. Non sarebbe stato bello assistere all'atto? L'idea di vedersi mentre faceva all'amore con un qualche Maestro di Yzordderrex non era inclusa nelle meraviglie che si aspettava di osservare in quella città, però non poteva nascondere che la cosa le dava un brivido erotico. Studiò il riflesso della propria immagine. Sebbene ci fossero alcune differenze estetiche, era proprio lei con tutti i pregi e difetti. Non. si trattava solo di una somiglianza molto forte, ma di un'identità vera e propria che la eccitava oltremisura. Doveva trovare un modo per parlare con quella donna entro sera. Anche se il fatto che fossero due sosia non era che uno scherzo della natura, probabilmente, se si fossero parlate, se avessero messo in comune le loro storie, sarebbero riuscite a carpire qualcosa l'una dell'altra. La sola cosa che servisse ora a Judith era un indizio per scoprire dove avesse intenzione di recarsi il suo doppio per trovare l'amato Maestro.

Dopo essersi rinfrescata il viso, Quaisoir si allontanò dallo specchio e ritornò nella stanza da letto. Concupiscentia sedeva vicino alla finestra. Quaisoir aspettò di essere a pochi centimetri dalla sua serva prima di parlare e comunque parlò a voce tanto bassa che fu difficile capire ciò che disse.

"Dobbiamo trovare un coltello."

La creatura scosse il capo. "Loro preso tutto," disse in quel suo modo strano di parlare. "Tu visto."

"Be', allora dobbiamo costruirne uno," ribatté Quaisoir. "Seidux tenterà di impedire la nostra fuga."

"Volere uccidere?"

"Sì."

Questa conversazione raggelò Judith. Sebbene Seidux se ne fosse andato di fronte alla minaccia di Quaisoir, Jude dubitava che sarebbe rimasto inerte di fronte a un attacco fisico. Infatti quale scusa migliore avrebbe potuto trovare per riconquistare la sua posizione di dominio, se non che Quaisoir gli si era parata dinanzi con un coltello in mano? Se ne avesse avuto i mezzi, Judith si sarebbe fatta portavoce di Clara ripetendo ciò che ella pensava dell'uomo distruttore, nella speranza di poter tenere Quaisoir lontana dal male. Sarebbe stata un'ironia insostenibile lasciare quella donna al suo destino ora che l'aveva trovata (sicuramente non per un caso fortuito, anche se all'inizio l'aveva pensato), dopo aver attraversato mezza Imagica, e proprio nella sua stanza.

"Io fa coltello," disse Concupiscentia.

"Allora muoviti," rispose Quaisoir, avvicinandosi ancor più alla sua complice.

Jude non fu in grado di capire cosa si dicessero in seguito, perché qualcuno la chiamò per nome. In preda al panico, si guardò in giro e, prima che riuscisse a mettere a fuoco la persona che aveva davanti, ne riconobbe la voce. Era Hoi Polloi che la stava svegliando.

"È arrivato papà!" la udì dire Judith. "Sveglia, è arrivato papà!"

Judith non ebbe il tempo di dire addio al sogno. Era lì un attimo prima e adesso era stato sostituito dalla faccia della figlia di Peccable che la stava scuotendo per svegliarla.

"Il papà..." ripeteva Hoi Polloi.

"Sì, ho capito," disse Judith in tono brusco, sperando che la ragazza smettesse di parlare e di interporsi fra lei e le visioni che il sonno le aveva portato. Sapeva di avere ancora solo pochi attimi per memorizzare il sogno, prima che cadesse nel dimenticatoio e i suoi dettagli svanissero lentamente. Fu fortunata. Hoi Polloi corse giù da suo padre, lasciando a Jude il tempo di ripetersi ad alta voce tutto quello che aveva visto e sentito. Quaisoir e la sua ancella Concupiscentia; Seidux e il complotto contro di lui. E l'amante, naturalmente. Non doveva dimenticare l'amante che si trovava da qualche parte in quella città, proprio in quello stesso istante, e che probabilmente era in pena per la sua amata rinchiusa in quella prigione dorata. Dopo aver memorizzato tutto, Judith andò prima in bagno e poi scese al piano inferiore per incontrarsi con Peccable.

Ben vestito e ancor meglio nutrito, Peccable aveva una faccia cui poco si addiceva la collera che vi aleggiava in quel frangente. Sembrava un po' assurdo così arrabbiato, perché aveva lineamenti tondeggianti e bocca troppo piccola per contenere tutto il fiume di retorica che stava producendo. Furono fatte le presentazioni, ma non si perse tempo in convenevoli. La furia di Peccable cercava uno sfogo, e sembrava che a lui non interessasse molto conoscere il suo pubblico, purché fosse dalla sua parte. D'altronde, aveva tutte le ragioni per essere furioso. Il suo magazzino vicino al porto era stato incendiato e lui stesso era riuscito solo per un pelo a sfuggire alla morte per mano della folla che aveva già occupato tre Kesparate e li aveva dichiarati città-stato indipendenti, prima di lanciare la sua sfida all'Autarca stesso. Fino a quel momento, raccontò Peccable, il palazzo aveva fatto ben poco. Piccoli contingenti erano stati mandati al Caramess, all'Oke T'Noon e negli altri sette Kesparate dall'altra parte della collina per sopprimere ogni segno di ribellione. Ma non era stata intrapresa alcuna azione offensiva contro gli insorti che avevano occupato il porto.

"Non sono nient'altro che feccia," disse il commerciante. "A loro non importa nulla delle persone o della proprietà. Il loro obiettivo è la distruzione indiscriminata: ecco tutto quello che sanno fare! Io stesso non sono un accanito sostenitore dell'Autarca, ma è lui che deve farsi portavoce della gente onesta come me in momenti come questi! Avrei dovuto vendere la mia ditta un anno fa. Ne avevo parlato con Oscar. Avevamo pensato di andarcene da questa città in sfacelo. Ma io ho preso tempo e ho aspettato ancora, perché credo nella gente. Questo è stato il mio errore," disse, alzando gli occhi al cielo come un uomo costretto a sopportare il martirio dalla sua stessa dignità. "Ho troppa fiducia." Guardò Hoi Polloi e aggiunse: "Non è vero?"

"Sì, papà, è vero," rispose la ragazza.

"Be', non più adesso. Vài a preparare la tua roba, tesoro, ce ne andiamo stasera stessa."

"E che cosa ne sarà della casa?" chiese Dowd. "E tutte quelle cose là sotto?"

Peccable volse lo sguardo su Hoi Polloi. "Perché non inizi subito a fare i bagagli?" le domandò, evidentemente imbarazzato all'idea di discutere dei suoi traffici illeciti di fronte alla figlia. Lanciò uno sguardo simile a Jude che fece finta di non comprenderne il significato e rimase seduta. Riprese comunque a parlare.

"Quando lasceremo questa casa la lasceremo per sempre," disse. "Non c'è nulla per cui valga la pena di tornare, ne sono profondamente convinto." Il borghese fuori di sé che pochi minuti prima anelava alla stabilità sociale si era trasformato in un apocalittico. "Doveva succedere prima o poi. Non potevano tenere sotto controllo tutti i culti per sempre."

"Chi non poteva?" domandò Jude.

"L'Autarca e Quaisoir."

Udire quel nome fu come un colpo allo stomaco per Judith.

"Quaisoir?" ripeté Judith.

"Sua moglie. La consorte. La nostra Signora Yzordderrex. È lei la causa della sua rovina, secondo me. Lui si è sempre tenuto nascosto e ha fatto bene; nessuno si sarebbe curato di lui finché il commercio fosse andato bene e le strade fossero state ben illuminate. Le tasse, ovviamente, erano un peso per tutti noi, specialmente per gli uomini come me, padri di famiglia, ma mi lasci dire: qui viviamo meglio che a Patashoqua o a Iahamandhas. No, non credo che l'Autarca abbia governato poi così male. Sa le storie che girano, su come stavano le cose quando lui ha preso il potere? Un vero casino! Metà dei Kesparate erano in lotta con l'altra metà. Lui ha riportato l'ordine. La gente stava bene. No, non è la sua politica la causa, è quella donna: lei è la sua rovina. Le cose sono andate bene fino a quando lei non ha iniziato a ficcarci il naso. Probabilmente crede di farci un favore degnandosi di apparire in pubblico."

"L'ha mai... vista in faccia?" domandò Judith.

"No, personalmente no. Si tiene sempre a una certa distanza, anche quando presenzia alle esecuzioni. Ho sentito che anche oggi si è mostrata in pubblico. Qualcuno ha detto di averla vista proprio in faccia. Brutta, hanno detto. E brutale. Non ne sono affatto sorpreso. Tutte queste esecuzioni sono state un'idea sua. Le piacciono, evidentemente. Be', invece alla gente non piacciono. Pazienza le tasse. Un repulisti ogni tanto, qualche processo politico sommario li possiamo anche accettare. Ma questa è solo una beffa mentre noi non ci siamo mai fatti beffe della legge di Yzordderrex."

Continuò su questo tono per un bel pezzo, ma Jude non lo ascoltava più. Era intenta a nascondere l'impetuoso miscuglio di sensazioni che la stavano assalendo. Quaisoir, la donna che aveva la sua stessa faccia, non era una semplice pedina nella vita di Yzordderrex, ma ne era la regina stessa e, per conseguenza logica, una delle persone più potenti di tutta l'Imagica. Poteva ancora avere dubbi sul fatto che fosse stata una ragione precisa a spingerla in quella città? Aveva un viso che sprigionava potere. Un viso con il quale era andata a spasso per il mondo in segreto, ma da dietro quei veli aveva piegato l'Autarca di Yzordderrex ai suoi piedi. La questione era: che significato aveva tutto ciò? Dopo aver condotto una vita così insignificante sulla terra lei, Jude, era stata forse chiamata in quel Dominio per gustare un po' di quel potere che il suo altro io deteneva di diritto? O era solo una manovra diversiva, e lei era stata chiamata in quel Dominio per soffrire al posto di Quaisoir per i crimini che molto probabilmente aveva commesso? E, se così era, chi l'aveva convocata? Evidentemente doveva essere stato un Maestro che aveva libero accesso al Quinto Dominio, e forse degli agenti che tramavano con lui. Che Godolphin avesse avuto una parte in tutta questa messa in scena? O era Dowd? Quest'ultimo, più probabilmente. E che cosa pensare di Quaisoir? Era completamente all'oscuro dei piani che erano stati tracciati dietro le sue spalle oppure ne era perfettamente a conoscenza?

Si ripromise che quella notte avrebbe scoperto tutto. Quella notte sarebbe riuscita in qualche modo a intercettare Quaisoir mentre si recava dal suo amante che le mandava gli angeli e, prima dell'alba del nuovo giorno, Jude avrebbe saputo perché era stata portata via dal Quinto.

 

33

 

Gentle fece come aveva promesso a Pie e rimase con Huzzah nel caffè dove avevano fatto colazione fino a quando l'arco della Cometa non si nascose dietro la montagna e la luce del giorno lasciò il posto alle ombre della sera. In questo modo non mise a dura prova tanto la sua pazienza quanto soprattutto i suoi nervi, poiché nel pomeriggio i tumulti nei Kesparate più bassi si allargarono a macchia d'olio, estendendosi in quasi tutte le strade, e divenne sempre più evidente che anche il quartiere in cui si trovavano si sarebbe trasformato in un campo di battaglia prima di sera. A gruppetti, i clienti del bar si alzarono dai loro tavoli, man mano che si avvicinavano i rumori inconfondibili della rivolta e degli spari. Cominciò a cadere una leggera pioggerellina di cenere che formava nell'aria piccoli vortici, mentre il cielo veniva oscurato di quando in quando dal fumo che si sollevava dai Kesparate incendiati.

Quando il primo ferito venne trasportato su per quella strada, annunciando che ormai la battaglia non poteva più essere troppo distante, i proprietari dei negozi limitrofi si riunirono nel bar, probabilmente per accordarsi sul modo migliore di difendere le loro proprietà. La discussione finì con accuse e insulti che furono estremamente istruttivi sia per Gentle sia per Huzzah. Dopo qualche minuto due bottegai tornarono portando delle armi, e a quel punto il loro leader, che si presentò come Bunyan Blew, chiese a Gentle se lui e sua figlia avessero una casa dove potersi rifugiare. Gentle rispose che quella mattina avevano promesso a un amico che l'avrebbero aspettato in quel caffè, e che sarebbero stati loro grati se avessero permesso a entrambi di rimanere lì fino al suo arrivo.

"Mi ricordo di voi," replicò Blew. "Ricordo che questa mattina siete entrati con una donna, non è vero?"

"Infatti, è lei che aspettiamo."

"Non so perché, ma quella faccia non mi era nuova," continuò Blew. "Spero che sia al sicuro là fuori."

"Anche noi lo speriamo," rincarò Gentle.

"Allora è meglio che restiate. Ma mi dovreste dare una mano a tirar su una barricata."

Bunyan spiegò che sapeva che prima o poi qualcosa del genere sarebbe accaduto e si era preparato per l'eventualità. C'erano assi di legno pronte per essere fissate alle finestre e, inoltre, egli si era procurato un certo numero di armi in caso che la folla avesse cercato di saccheggiare i suoi scaffali. Peraltro, tutte quelle precauzioni risultarono superflue. Quella strada divenne l'arteria principale per il trasporto dei feriti provenienti dalla zona di combattimento, che si stava estendendo verso la collina ma passava da una strada più a est rispetto a quella del caffè. Seguirono due ore di panico snervante, perché sembrava che la confusione delle grida e degli spari provenisse da ogni dove, e le bottiglie sugli scaffali del bar tintinnavano e traballavano ogni volta che il terreno tremava, cosa che accadeva spesso. Uno dei negozianti, che era uscito poco prima indignatissimo, tornò a bussare alla porta durante quell'assedio e cadde a terra proprio sulla soglia, gravemente ferito alla testa dalla quale uscivano fiotti di sangue. Ciononostante, cercava di raccontare quanto stava succedendo nei luoghi di battaglia. Disse che l'esercito aveva fatto intervenire l'artiglieria pesante durante le ultime ore e che il porto era stato quasi raso al suolo, la sopraelevata era diventata ormai impraticabile... il che significava che la città era isolata. Tutto ciò era nei piani dell'Autarca, aggiunse. Altrimenti, perché mai interi quartieri erano stati lasciati bruciare senza che nessuno intervenisse? L'Autarca stava permettendo che la città si distruggesse da sé, ben sapendo che la rivolta non sarebbe riuscita a oltrepassare le mura del palazzo.

"Lascerà che la gente si distrugga," continuò l'uomo. "E poi a lui non importa un fico secco di quello che succede a tutti noi. Bastardo egoista! Moriremo sotto le fiamme e lui non alzerà un dito per aiutarci!"

Quel resoconto fu subito confermato dai fatti. Quando su suggerimento di Gentle salirono tutti sul terrazzo per avere una visuale migliore, trovarono una situazione del tutto corrispondente a quella descritta dal ferito. L'oceano era completamente oscurato da un muro di fumo che s'innalzava dalle ceneri del porto; alte colonne di fumo si levavano da due dozzine di luoghi diversi, vicini e lontani; attraverso la caligine generata dall'incendio di Oké T'Noon si intravedeva la sopraelevata le cui macerie avevano ostruito il delta. La città era intasata dal fumo e la Cometa riusciva a illuminare ben poco; del resto aveva già quasi lasciato il posto alle tenebre.

"Dobbiamo andare," disse Gentle a Huzzah.

"Dove?" chiese la ragazza.

"A riprendere Pie'oh'pah," le rispose Gentle. "Adesso, finché siamo ancora in tempo."

 

Da ciò che si era potuto vedere dal terrazzo era chiaro che non esisteva un percorso sicuro per ritornare al Kesparate dove si trovava il mystif. Le diverse fazioni che si fronteggiavano per via avevano movimenti imprevedibili. Una strada vuota poteva riempirsi in un batter d'occhio di gente e il momento dopo di macerie. Gentle e Huzzah avrebbero dovuto seguire l'istinto e confidare nelle preghiere per trovare la via più diretta che le circostanze permettessero. In quel Dominio il crepuscolo durava più o meno quanto una giornata invernale in Inghilterra, cinque o sei ore, durante le quali la coda della Cometa lasciava nel cielo delle tracce di luce, pur se la sua testa fiera era già scomparsa dietro l'orizzonte. Mentre Gentle e Huzzah procedevano lungo le strade il fumo si ispessiva, nascondendo la luce fioca e immergendo la città in una tenebra sordida. Gli incendi, certo, illuminavano, ma, a parte quelle conflagrazioni, nelle vie dove i lampioni non erano stati accesi e dove i cittadini si erano barricati dietro porte e finestre per evitare quanto più possibile di venire scoperti, l'oscurità era quasi impenetrabile. Nell'enorme confusione, Gentle si issò Huzzah sulle spalle in modo che, da quell'altezza, la ragazza potesse individuare qualche punto di riferimento e guidarlo.

Procedevano lentamente, si fermavano a ogni incrocio per studiare quale fosse la rotta meno pericolosa da seguire e per correre in fretta al riparo non appena vedevano avvicinarsi le truppe dell'esercito governativo o le schiere dei rivoltosi. Strana guerra, in cui per un soldato c'erano almeno una mezza dozzina di spettatori, gente che sfidava la marea della battaglia come quei poveracci che vivono di ciò che porta a riva il mare e che si ritirano prima di ogni onda solo per tornare ai loro posti di osservazione al passato pericolo; un gioco che talvolta si rivela letale. Anche Gentle e Huzzah dovettero ballare quella danza pericolosa. Infatti, furono continuamente costretti a deviare e a cambiare strada, affidandosi esclusivamente al loro istinto per mantenere la direzione giusta finché - era inevitabile - a un certo punto anche il loro istinto venne meno.

In un raro momento di quiete tra clamori e bombardamenti, Gentle esclamò: "Angelo mio, non ho la più pallida idea di dove ci troviamo."

Un fuoco a tappeto di artiglieria aveva ridotto in macerie la maggior parte del Kesparate in cui si trovavano e, tra quei detriti, c'erano ben pochi posti dove potersi rifugiare, ma Huzzah insistette per trovarne uno; la natura la chiamava a qualcosa che non poteva più essere ritardato. Gentle la fece scendere e la ragazza si precipitò verso un possibile riparo costituito da una casa semidistrutta ad alcune centinaia di metri di distanza. Gentle rimase di guardia alla porta, chiamandola per raccomandarle di non avventurarsi troppo all'interno. Non aveva ancora finito di parlare quando apparve all'improvviso una piccola banda di uomini armati. Gentle si nascose immediatamente dietro la porta. Le loro armi, però, che quasi sicuramente erano state rubate a dei caduti, stonavano con il loro aspetto, che non era certo quello di rivoluzionari. Il più anziano, un uomo di mezza età dalla corporatura robusta, indossava ancora il cappello e la cravatta che molto probabilmente si era messo la mattina per andare al lavoro, mentre gli altri due che lo affiancavano erano appena meno giovani di Huzzah. Gli ultimi due membri della banda erano una donna Oethac e un appartenente alla tribù di cui faceva parte il giustiziere di Vanaeph, un Nullianac con la testa a forma di mani giunte in preghiera.

Gentle si guardò alle spalle per evitare che Huzzah spuntasse all'improvviso e rendesse manifesto il suo nascondiglio, ma della ragazza non v'era più alcuna traccia. Gentle lasciò la soglia e si diresse verso l'interno di quelle rovine. Il pavimento era appiccicoso, ma Gentle non riusciva a capire che cosa lo rendesse tale. Scorse a un certo punto Huzzah o la sua silhouette che si alzava in piedi; anche lei lo vide e stava per protestare, quando lui la zittì più efficacemente che poté. Un nuovo bombardamento, molto vicino a giudicare dallo spostamento d'aria e dalle vampe delle esplosioni, illuminò l'ambiente in cui si trovavano. Si trattava di un interno casalingo: una tavola apparecchiata per la cena, il cadavere della cuoca lì vicino. Era il sangue di quella donna che aveva reso appiccicoso il pavimento. Gentle attirò Huzzah a sé, la tenne stretta e stava per dirigersi di nuovo verso la porta quando scoppiò un secondo bombardamento. Anche la banda armata dovette correre al riparo di quella stessa casa e l'Oethac individuò Gentle prima che questi potesse nascondersi nell'ombra. L'Oethac lanciò un grido e uno dei giovani aprì il fuoco nell'oscurità dove Gentle e Huzzah si erano rifugiati. Le pallottole colpirono le pareti, e il legno e le schegge partirono in tutte le direzioni. Indietreggiando per allontanarsi dalla porta verso cui si dirigevano gli attaccanti, Gentle sospinse Huzzah verso il punto più buio e tirò un respiro. Ebbe appena il tempo di farlo che vide il giovane dal grilletto facile avvicinarsi alla soglia. A quel punto Gentle lanciò uno pneuma in direzione della porta. Sottovalutò, però, la propria forza. L'uomo armato saltò in aria all'istante, ma lo pneuma colpì anche la struttura della porta, e quasi tutta la parete crollò a terra come sabbia.

Prima che la polvere si posasse e i sopravvissuti passassero al contrattacco, Gentle cercò Huzzah, ma anche la parete contro la quale la ragazzina si era accovacciata si era crepata e ora oscillava come un'onda di pietra. Gentle urlò il nome di Huzzah e la parete cedette. La ragazzina rispose con un grido al suo richiamo: proveniva dalla sua sinistra. Il Nullianac l'aveva presa e per un momento terrificante Gentle pensò volesse ucciderla. Invece vide che la teneva come si tiene una bambola, scomparendo dietro le nuvole di polvere.

Gentle si lanciò immediatamente all'inseguimento senza guardarsi le spalle, e fu un errore imperdonabile, dato che, dopo solo qualche passo, cadde a terra colpito nelle reni da una pugnalata della donna Oethac. La ferita non era profonda, ma lo spavento gli tolse il respiro mentre cadeva, e quella donna sarebbe riuscita a tagliargli la parte posteriore del cranio con un secondo colpo se egli non avesse avuto la prontezza di riflessi di rotolare di lato per evitarlo. Il piccolo pugnale intriso del sangue di Gentle, che la donna Oethac brandiva, si piantò nel terreno e, prima che l'Oethac riuscisse a recuperarlo, Gentle si era già rialzato lanciandosi all'inseguimento di Huzzah e del suo rapitore. L'altro giovane guerriero si stava riunendo al Nullianac gridando, o meglio, lanciando strida in preda all'ebbrezza della droga o dell'alcool. Gentle li perse di vista, ma continuò a seguire quelle grida. L'inseguimento lo portò fuori da quel luogo devastato, in un Kesparate che era rimasto praticamente intatto.

C'erano validi motivi per cui quel Kesparate era rimasto indenne. Qua si commerciava in sesso e gli affari prosperavano. Sebbene le strade fossero più strette rispetto a quelle di qualsiasi altro quartiere in cui Gentle era passato, da ogni porta e finestra usciva luce, e le lampade e le candele servivano a illuminare meglio la mercanzia che andava avanti e indietro tra la porta e i davanzali. Una semplice occhiata veloce bastava a far capire che in quel Kesparate si offrivano piaceri e anatomie che avrebbero fatto dimenticare persino il ghetto più dissoluto di Bangkok o di Tangeri. E non mancavano i clienti. L'imminenza della morte sembrava aver risvegliato negli yzordderrexiani un'irrefrenabile libidine. Forse le prostitute che offrivano le loro prestazioni mentre Gentle passava non sarebbero arrivate alla mattina successiva, ma se non altro avrebbero avuto la magra consolazione di morke ricche. Inutile dire che il fatto che un Nullianac portasse in braccio una bambina chiaramente non consenziente non sembrava meritare neppure un'occhiata in quella strada consacrata alla depravazione, e che i tentativi fatti da Gentle per richiamare l'attenzione di qualcuno che lo aiutasse a bloccare il rapitore furono ignorati.

La folla aumentava a mano a mano che Gentle si avventurava in quella strada tanto che, alla fine, perse completamente di vista coloro che stava inseguendo. Vi erano strade laterali che si dipartivano da quella principale (tra di esse la cosiddetta via Golosa, stando alla scritta che imbrattava la parete di un bordello) e nella loro oscurità un Nullianac poteva nascondersi come voleva. Gentle cominciò a gridare il nome di Huzzah, ma tra l'eco e i richiami, le due sillabe di quel nome subito si disperdevano. Stava per mettersi a correre quando intravide un uomo che arretrava in una delle strade laterali, l'angoscia sul viso. Gentle si fece largo per raggiungerlo e lo afferrò per un braccio, ma questi si liberò dalla presa e spari prima che Gentle gli potesse chiedere che cosa aveva visto. Anziché urlare ancora il nome di Huzzah, Gentle risparmiò il fiato e si diresse giù per il vicolo.

A circa duecento metri, c'erano dei materassi che bruciavano e il fuoco era sorvegliato da una donna mascherata. Gli insetti che si erano annidati nell'imbottitura cercavano di trarsi in salvo dalle fiamme; alcuni addirittura tentavano il volo sulle ali bruciate ma finivano schiacciati dalla donna che curava il fuoco. Evitando le braccia della donna che sciabolavano l'aria, Gentle le chiese se avesse visto passare il Nullianac, e la donna gli indicò con un cenno della testa di proseguire lungo il vicolo. Il terreno era ricoperto di insetti fuggiti all'inferno di fuoco dei materassi e Gentle, finché non uscì da quel cerchio di fuoco, ne schiacciò almeno un centinaio. La via Golosa era ormai troppo lontana per illuminare la scena, ma il bombardamento, che quella folla dietro di lui pareva ignorare completamente, continuava incessante, e le esplosioni si succedevano a ogni angolo della città, inviando qualche bagliore nel vicolo che Gentle stava percorrendo. Era stretto e sudicio, gli edifìci sbarrati con mattoni o assi, non molto diverso da una fogna, intasato di immondizie e di generi alimentari andati a male. Il puzzo era nauseante, ma Gentle respirò comunque a fondo, sperando che lo pneuma nato da quell'aria fetida potesse diventare potentissimo proprio nutrendosi di quella sozzura. Rapire Huzzah aveva già condannato a morte i suoi sequestratori ma, se le avessero fatto anche del male, Gentle si ripromise che, prima di giustiziarli, avrebbe fatto patir loro quello stesso dolore centuplicato.

Il vicolo procedeva tortuoso, talvolta stringendosi talmente da consentire il passaggio di un solo un uomo. Gentle era sicuro di avvicinarsi a Huzzah perché udiva la voce del giovane guerriero a poca distanza dal punto in cui si trovava. Rallentò un poco il passo, avanzando tra i rifiuti che gli arrivavano quasi alle ginocchia, e poi in lontananza cominciò a intravedere una luce. Il vicolo terminava poche centinaia di metri più avanti e proprio in fondo c'era il Nullianac accovacciato vicino a un muro. La fonte di luce che lo illuminava non era né una lampada né un falò, ma la stessa testa di quella creatura che produceva, tra le sue due estremità, archi di energia luminosa.

In quella luminescenza, Gentle vide il proprio angioletto, steso per terra di fronte al suo rapitore. Sembrava calma, il corpo abbandonato, gli occhi chiusi, e Gentle ringraziò il cielo per quel suo stato di incoscienza, considerate le pratiche cui il Nullianac la stava sottoponendo. L'aveva spogliata dalla vita in giù e le sue lunghe mani bianche la stavano toccando. Il giovane guerriero schiamazzante si trovava a pochi passi da quella scena. Si era calato i pantaloni e con una mano reggeva il fucile, mentre l'altra teneva il membro mezzo eretto. Di quando in quando mirava con il fucile alla testa della bambina e poi emetteva un altro schiamazzo. Niente avrebbe dato in quel momento maggiore soddisfazione a Gentle che scagliare uno pneuma contro quei due dalla posizione in cui si trovava. Ma si tratteneva perché sapeva di non controllare completamente la propria forza e temeva quindi di far del male anche a Huzzah. Si avvicinò ancora un po', mentre un'altra esplosione illuminava il posto. Grazie a quel chiarore riuscì a intravedere che cosa stesse facendo il Nullianac e poi, cosa ancor più sconvolgente, udì il gemito di Huzzah. La luce si dissolse com'era venuta, lasciando soltanto la testa del Nullianac a illuminare quella scena dolorosa con il suo chiarore tremulo. Il giovane guerriero aveva smesso di lanciare i suoi gridolini, gli occhi fissi sullo stupro. Il Nullianac sollevò lo sguardo e pronunciò poche sillabe che fuoriuscirono dalle cavità tra i suoi due teschi, e con riluttanza il giovane guerriero obbedì all'ordine ricevuto, allontanandosi. S'avvicinava il momento culminante. Gli archi sulla testa del Nullianac lampeggiavano con nuova frenesia, le sue dita stavano lavorando come per preparare Huzzah a ricevere la loro scarica. Gentle respirò a fondo comprendendo che doveva rischiare di fare del male a Huzzah, se voleva evitarle un male sicuro e maggiore. Il giovane guerriero udì la sua inspirazione e si girò per scrutare nell'oscurità. In quel momento un'altra scarica letale illuminò tutto dall'alto e Gentle fu in piena luce.

Il giovane aprì immediatamente il fuoco ma la sua scarsa abilità o il suo stato di eccitazione gli fecero mancare il bersaglio. Le pallottole finirono lontane. Gentle non gli diede il tempo di ritentare. Riservando lo pneuma al Nullianac, Gentle si gettò sul guerriero, strappandogli l'arma di dosso e cominciando a prenderlo a calci fino a scaraventarlo a terra. Il guerriero cadde a pochi centimetri dal fucile, ma, prima che potesse afferrarlo, Gentle pestò le dita che si allungavano verso l'arma e il guerriero lanciò per il dolore un grido ben diverso da quelli precedenti.

Gentle si girò verso il Nullianac appena in tempo per vedere che stava alzando la testa incandescente, gli archi di energia luminosa che scoppiettavano come fuochi d'artificio. Gentle stava portando il pugno alla bocca per rilasciare lo pneuma, quando il giovane guerriero lo prese per una gamba. La morte certa partì comunque dalla bocca di Gentle, centrando il fianco del Nullianac e non la testa, per cui non lo uccise all'istante. Il giovane si strinse ancora alla gamba di Gentle e questa volta lo fece cadere nel lereiume in cui pochi secondi prima era stato Gentle a gettarlo. Questi, già ferito alla schiena, sbatté pesantemente per terra. Fu accecato dal dolore e, quando fu in grado di vedere di nuovo, scorse il giovane guerriero che si era rialzato e si frugava nella cintura alla ricerca di un'arma. Gentle guardò in direzione del Nullianac caduto con la testa riversa che sprizzava scintille. La luce era fievole ma sufficiente per consentire a Gentle di intravedere ai propri piedi il fucile. Lo raccolse immediatamente, mentre la mano di quel giovane delinquente ancora cercava un'altra arma, e glielo puntò contro prima che il giovane potesse porre il dito sul grilletto. Gentle non mirò alla testa o al cuore, ma all'inguine. Un bersaglio piuttosto ridotto, ma tale da far sì che il guerriero lasciasse subito cadere la sua arma.

"Non farlo, no, signore!" urlò.

"La cintura..." disse Gentle alzandosi in piedi mentre il giovane si affannava a slacciarsi la cintura e a togliersi di dosso l'arsenale che aveva rubato qui e là.

Grazie a un'altra scarica di scintille, Gentle s'accorse il ragazzo era pieno di tic e aveva i nervi a fior di pelle: faceva solo pena, inerme com'era. Non era onorevole ucciderlo, nonostante i crimini che poteva aver commesso.

"Va' a casa," gli intimò Gentle. "Se vedo ancora la tua faccia in giro..."

"Non mi vedrai, signore," disse il ragazzo, "Te lo giuro! Te lo giuro, non mi vedrai mai più!"

Non diede tempo a Gentle di cambiare idea e sparì assieme alla luce che aveva rivelato la sua fragilità. Gentle diresse il fucile e il proprio sguardo sul Nullianac. Questi si era alzato in piedi strisciando contro il muro, e le sue dita, i polpastrelli arrossati dalla sua turpitudine, premevano la parte del corpo che era stata colpita dallo pneuma. Gentle sperò che stesse soffrendo ma non ebbe modo di saperlo finché il Nullianac non parlò. Le parole gli uscirono dalla testa fracassata sotto forma di un quasi incomprensibile balbettio.

"A chi toccherà..?" disse. "A te o a lei? Ucciderò uno di voi due prima di andarmene. A chi toccherà?"

"Ti ucciderò prima io," ringhiò Gentle puntando il fucile alla testa del Nullianac.

"È vero, potresti," gli rispose l'altro. "Hai già ucciso un mio fratello fuori Patashoqua."

"Tuo fratello...?"

"Noi siamo creature rare e sappiamo tutto sulle nostre vite," disse il Nullianac.

"E allora cerca di non contribuire all'estinzione della tua specie," lo ammonì Gentle, avvicinandosi di un passo a Huzzah ma mantenendo lo sguardo fisso sul suo violentatore.

"È viva," disse il Nullianac. "Non ucciderei mai un essere così giovane. Non così in fretta. Ai giovani si addice la lentezza."

Gentle si arrischiò a distogliere per un istante lo sguardo da quella creatura per dirigerlo su Huzzah che aveva gli occhi spalancati e fissi su di lui con terrore.

"Va tutto bene, angelo mio," disse per rassicurarla, "Non ti succederà più nulla. Riesci a muoverti?"

Riportò lo sguardo sul Nullianac, mentre pronunciava quelle parole, sperando di trovare un modo per interpretare il linguaggio dei suoi baluginii. Era forse ferito più gravemente di quanto non desse a vedere e stava risparmiando le proprie energie per riprendersi? Oppure stava solo temporeggiando per aspettare il momento più opportuno per sferrare un attacco?

Huzzah si mise faticosamente a sedere. Quel movimento la fece gemere di dolore. Gentle avrebbe voluto prenderla tra le braccia e consolarla, ma tutto ciò che osò fare fu inginocchiarsi, tenendo gli occhi fissi sul suo violentatore, e allungarle gli indumenti che le erano stati strappati di dosso.

"Riesci a camminare, angelo mio?"

"Non lo so," rispose Huzzah tra le lacrime.

"Provaci. Ti aiuto io."

Tese il braccio per aiutarla ma la ragazzina lo rifiutò, dicendo che voleva riuscirci da sola.

"Brava, così, tesoro," disse Gentle. Nella testa del Nullianac doveva esserci stato un amaro risveglio, perché i suoi archi luminosi avevano ricominciato a danzare. "Voglio che tu adesso cammini, angelo," disse Gentle. "Non preoccuparti, io vengo con te."

La ragazzina fece come le era stato detto, lentamente, senza riuscire a frenare le lacrime. Non appena mosse i primi passi, il Nullianac ricominciò a parlare.

"Ah, vederla così mi fa di nuovo morire dalla voglia." Gli archi avevano ricominciato a crepitare come fuochi di artificio lontani. "Che cosa faresti per salvare la sua piccola anima?" chiese.

"Tutto," rispose Gentle.

"Ti inganni da solo," replicò il Nullianac. "Quando hai ucciso mio fratello, ci siamo informati su di te, la mia gente e io. E sappiamo benissimo che tipo di uomo corrotto sei. Che cos'è, in fin dei conti, il mio crimine rispetto ai tuoi? Una piccola cosa che faccio soltanto perché lo richiedono i miei appetiti. Ma tu... tu hai gettato via le speranze di generazioni. Tu hai distrutto il frutto di grandi alberi. E osi ancora sostenere che daresti e faresti tutto per salvare questa piccola anima?"

Tanta eloquenza stupì Gentle, ma lo stupì ancor più il contenuto di quelle frasi. Dove aveva strappato quella creatura le informazioni che snocciolava con tanta sicumera? Si trattava sicuramente di invenzioni ma, nonostante tutto, Gentle si sentì confondere, i pensieri che affioravano alla sua mente gli fecero dimenticare il pericolo in cui si trovava. La creatura s'accorse che l'avversario aveva abbassato la guardia e in quel preciso istante agì. Sebbene si trovasse a un paio di metri da lui, Gentle percepì un frammento di silenzio tra la luce e quelle parole, un vuoto che gli dava la conferma di che razza di salvatore inetto egli fosse. La morte viaggiava in direzione della bambina ancor prima che il grido d'allarme di Gentle gli uscisse dalla gola.

Gentle guardò verso il suo angelo, a pochi metri da lui. Huzzah si era voltata per avvertirlo, oppure aveva ascoltato il discorso del Nullianac, perché gli si era messa di fronte pronta a ricevere in pieno il colpo che le sarebbe stato inflitto. Il tempo sembrava trascorrere lentissimamente, e Gentle visse momenti estremamente dolorosi in cui poté contemplare Huzzah che non gli staccava gli occhi di dosso, le sue ciglia completamente asciutte, l'espressione fissa. Ebbe anche il tempo di avvertirla con un urlo e, come per mostrargli di avere inteso, Huzzah chiuse gli occhi, il suo viso divenne un vuoto su cui Gentle avrebbe potuto iscrivere qualsiasi accusa la sua colpa volesse attribuirgli.

Poi il Nullianac sferrò il colpo mortale contro Huzzah. La forza colpì il corpo della ragazza con violenza, ma non ne spaccò le carni, sicché per un istante Gentle sperò che Huzzah avesse trovato un modo per proteggersi. Ma la ferita che le era stata inferta era più insidiosa di quella di una pallottola, e la luce, dal punto di impatto, si diffuse al viso della ragazza penetrandone ogni angolo, e poi giù verso i luoghi in cui le dita di quel boia avevano già operato.

Gentle lanciò un altro urlo, questa volta di rabbia, e si girò verso il Nullianac imbracciando il fucile da cui le orribili parole dell'avversario l'avevano fatto distogliere, e gli sparò al cuore. La creatura cadde a terra sbattendo contro il muro, le braccia molli lungo i fianchi, mentre lo spazio tra i teschi emanava ancora quella luce letale. Poi Gentle tornò a guardare Huzzah e vide che quella luce la stava divorando dall'interno e fluiva poi lungo la linea dello sguardo dell'assassino per tornare nella cavità dalla quale era partito il colpo letale. Mentre Gentle la osservava, il viso della ragazza si dissolse, e i suoi arti, senza più opporre resistenza, seguirono la stessa sorte. Prima che la ragazzina fosse interamente consunta, la ferita inferta dalla pallottola di Gentle uccise il Nullianac. Il flusso di energia si interruppe e svanì. In quell'istante si fece buio e per un po' Gentle non riuscì più a vedere il corpo di quella creatura. Poi, in cielo, una nuova esplosione, breve ma intensa, gli permise di osservare per l'ultima volta il corpo del Nullianac disteso per terra, dove prima si era raggomitolato.

Lo osservò aspettandosi qualche ultima rappresaglia, ma non accadde nulla. La luce morì e Gentle riprese il cammino lungo il vicolo, oppresso non soltanto dal fatto di non aver potuto salvare la vita di Huzzah, ma anche dalla sua incapacità di comprendere quello che era appena successo. In poche parole, una bambina a lui affidata era stata uccisa dal suo stupratore, e lui non era riuscito a evitarne la morte. Ma Gentle frequentava i Domini da troppo tempo per accontentarsi dei soli dati di fatto. In quell'evento c'era molto di più di una semplice libidine contrastata e di una morte improvvisa. Le parole scambiate si addicevano più a un pulpito che a una fogna. Egli stesso non aveva chiamato per tutto quel tempo Huzzah il suo angelo? Non aveva visto crescere negli occhi di quella bambina la serafica consapevolezza d'essere prossima a morire, e l'accettazione di quel suo destino? E lui che si era qualificato come il suo salvatore, non aveva forse dato prova, fallendo nel suo compito, della verità delle accuse che quella creatura gli aveva mosso? Erano parole di grande effetto, cui ovviamente lui non credeva fino in fondo; non tanto da indulgere a fantasie messianiche, ma quanto bastava per lasciare che il dolore che provava in quel momento fosse alleviato dalla speranza che quanto era accaduto rivelasse l'esistenza di un più alto intendimento che, dando tempo al tempo, egli un giorno avrebbe conosciuto e quindi compreso.

Un bagliore d'incendio illuminò la strada e l'ombra di Gentle si posò su qualcosa che si muoveva tra il sudiciume. Gli ci volle un momento per capire che cosa fosse, ma quando ci riuscì lanciò un urlo. Huzzah non era stata divorata del tutto. Erano rimasti alcuni pezzetti della sua pelle e dei suoi nervi che si muovevano in quel marciume e che erano caduti quando il Nullianac era stato interrotto nel suo stupro. Non era riconoscibile, infatti: se quei piccoli resti non si fossero mossi all'interno degli indumenti insanguinati di Huzzah, Gentle non li avrebbe mai identificati come pezzi della sua carne. Si inginocchiò per toccarli con le lacrime agli occhi, ma prima che le sue dita potessero raggiungerli, quel poco di vita che era rimasta in quei resti svanì per sempre.

Gentle si rialzò furente, sopraffatto dall'orrore per ciò che giaceva ai suoi piedi e per le case vuote e distrutte che lo circondavano; disgustato con se stesso per essere sopravvissuto al suo angelo. Volgendo lo sguardo verso il muro più vicino, trasse un respiro profondo e portò non una ma tutte e due le mani alle labbra, con l'intenzione di fare quel poco che poteva per seppellire quei resti.

Il suo pneuma, alimentato dalla rabbia e dal disgusto, non fece crollare un muro soltanto, ma ne abbatté molti, passando attraverso le pareti malferme delle case come una pallottola in un mazzo di carte. Schegge di pietra volarono ovunque, mentre le case crollavano su se stesse, l'una trascinando nel crollo l'altra, mentre la nuvola di polvere si dilatava a mano a mano che distruzione si sommava a distruzione.

Gentle si avviò seguendo la strada percorsa dal suo pneuma, temendo che il disgusto gli avesse dato più forza di quanto avrebbe voluto. Lo pneuma si stava dirigendo verso la via Golosa, dove la folla si intratteneva piacevolmente, ignara del suo arrivo. Chi camminava per quella strada non era certo esente da corruzione, ma non per questo meritava di morire. Gentle desiderò di poter ritirare lo pneuma allo stesso modo in cui poteva formarlo, richiamandolo dentro di sé. Ma lo pneuma aveva la propria volontà, e tutto ciò che Gentle poteva fare a quel punto era sperare che esaurisse le proprie energie prima di raggiungere la folla.

Poteva intravedere le luci della via Golosa attraverso la pioggia di rovine, e accelerò il passo per cercare di sorpassare lo pneuma, quando posò lo sguardo sulla folla, più numerosa che mai. Alcuni avevano smesso di guardare la merce in mostra per concentrarsi su quello spettacolo di distruzione. Gentle osservò le loro facce strabiliate, i sorrisini, lo scuotere delle teste: si rese conto che quella gente non aveva la minima idea di che cosa stesse andando loro incontro. Sapendo che qualsiasi avvertimento verbale si sarebbe perduto nel frastuono della catastrofe, Gentle si precipitò all'altro capo della via facendo segno alla folla di allontanarsi, ma i suoi gesti ebbero il solo effetto di attirare un pubblico maggiore, curioso di assistere alla capitolazione della via. Solo una o due persone avvertirono il pericolo, e l'espressione di curiosità sui loro volti si tramutò in un'espressione di paura e, alla fine, ma ormai era troppo tardi, il loro disagio si diffuse tra la folla e cominciò un fuggi-fuggi generale.

Lo pneuma fu comunque più veloce. Proruppe dall'ultimo muro con una pioggia devastante di pietre e schegge, colpendo la folla là dove maggiormente si accalcava. Fosse anche stato Hapexamendios in persona che, in un accesso di collera, avesse decretato la fine della via Golosa, non avrebbe potuto fare meglio. In un batter d'occhio, ciò che pochi secondi prima era stata una folla confusa si trasformò in un ammasso di sangue e ossa.

Sebbene si trovasse al centro di quella devastazione, Gentle ne uscì illeso. Fu in grado di osservare la sua terribile arma all'opera, la violenza che ancora serbava pur avendo già abbattuto un'infinità di case. Ma, dopo aver falciato la folla, lo pneuma non aveva più seguito la traiettoria che Gentle aveva cercato di imprimergli con le labbra. Ora che aveva trovato della carne, pareva fosse deciso a occuparsi di quella materia vivente fino a quando non ne fosse rimasta più traccia.

Gentle rimase sgomento a quella vista. Non era stata quella la sua intenzione, neppure lontanamente. Sembrava esserci un'ultima alternativa per lui, e subito la mise in atto: sbarrare la strada al suo pneuma. Aveva usato la potenza dei suoi polmoni ormai molte volte: la prima, contro il fratello del Nullianac a Vanaeph, poi due volte sulle montagne e un'ultima volta sull'isola durante la fuga dal manicomio di Vigor N'ashap, m non aveva mai avuto modo di vedere come era fatto. Era forse come un soffietto per alimentare il fuoco oppure come una pallottola fatta d'aria e di volontà, quasi invisibile fino al momento in cui raggiungeva il proprio obiettivo? Forse i precedenti erano stati proprio così, ma ora, quando Gentle andò a fronteggiarlo, poté notare che lo pneuma aveva raccolto polvere e sangue lungo il suo tragitto, e con quegli elementi essenziali si era foggiato a somiglianza del suo creatore. Era la sua faccia quella che stava andando incontro a Gentle, per quanto grossolanamente sbozzata; quelli erano la sua fronte, i suoi occhi, la sua bocca ancora aperta nell'atto di espellere il respiro con cui tutto era cominciato. Lo pneuma non rallentò quando si avvicinò al suo creatore, anzi colpì il torace di Gentle proprio come aveva colpito tanti altri prima di lui. Egli avvertì il colpo ma non ne fu ferito. Al contrario, quella forza, riconoscendo in Gentle la propria origine, si scaricò attraverso il suo organismo, correndogli sulla punta delle dita, e si calmò sul suo scalpo. La violenza sparì con la stessa rapidità con cui era nata e Gentle rimase lì, in mezzo a quella devastazione, con le braccia aperte e la polvere che gli ricadeva tutt'intorno.

Seguì il silenzio. In lontananza si sentivano i feriti piangere e i muri traballanti crollare, ma il silenzio che avvolgeva Gentle era quasi mistico. Qualcuno si buttò ai suoi piedi per soccorrere, così pensò Gentle, un ferito. Poi udì gli "Alleluia!" che quell'uomo stava pronunciando e vide che le sue mani si tendevano verso di lui. Un altro lo imitò e fu subito seguito da un terzo, come se quella scena di liberazione fosse stata un segno che aspettavano da lungo tempo, e da ogni cuore stesse sgorgando un fiume di devozione rimasta a lungo repressa.

Interdetto, Gentle distolse lo sguardo da quei visi pieni di gratitudine e guardò verso la via Golosa. Adesso aveva un solo desiderio: andare da Pie e trovare conforto nelle sue braccia. Ruppe il cerchio dei suoi devoti e s'incamminò, ignorando le mani che si tendevano per ringraziarlo e le grida di adorazione. Avrebbe voluto rimproverarli per la loro ingenuità, ma a che cosa sarebbe servito? Qualsiasi cosa avesse detto, fosse anche stata autodenigratoria, sarebbe stata intesa come l'annuncio di un qualche vangelo. Rimase in silenzio e si fece largo a testa bassa tra le pietre e i cadaveri. La gente lo osannava, ma lui ostentava indifferenza, anche se si rendeva conto che quell'atteggiamento avrebbe potuto essere interpretato come umiltà divina; insomma, qualsiasi cosa avesse fatto, sarebbe stato comunque incapace di sfuggire alla trappola in cui le circostanze lo avevano attratto.

Il paesaggio desolato che si presentava alla fine di quella strada lo intimidiva più che mai, ma vi si incamminò ugualmente, incurante degli spari che avrebbero potuto colpirlo. I possibili orrori di quel nuovo paesaggio erano insignificanti in confronto al ricordo dei resti di Huzzah che si muovevano nel sudiciume, o agli alleluia di cui ancora sentiva l'eco dietro di sé: quella gente lo osannava senza sapere che proprio lui, il salvatore della via Golosa, ne era stato anche il distruttore, ma non per questo appariva meno seducente.

 

34

 

I

 

Dell'allegria che gli ampi locali del cianculi avevano una volta ospitato (e non si trattava di pagliacci o di pony, ma di spettacoli che ogni showman del Quinto avrebbe potuto invidiare) era scomparsa ogni traccia. I grandi saloni che avevano riecheggiato di risate e grida di gioia si erano trasformati in luoghi di dolore e di condanna. Quel giorno, sul banco degli imputati c'era il mystif Pie'oh'pah e il pubblico ministero, uno dei pochi avvocati rimasti vivi a Yzordderrex dopo le epurazioni volute dall'Autarca, era un asmatico dall'aria malaticcia di nome Thes'reh'ot. Dinanzi a un pubblico di due sole persone, Pie'oh'pah e il giudice, la sua esposizione dei crimini fu talmente plateale che avrebbe meritato una sala gremita. Disse che le colpe del mystif erano tali e tanto gravi da fargli meritare almeno una decina di condanne a morte. Era un traditore e un codardo, ma probabilmente anche un informatore e una spia. Inoltre, cosa ancor peggiore, aveva abbandonato quel Dominio per un altro senza chiederne l'autorizzazione alla sua famiglia o ai propri maestri, negando così alla propria gente il beneficio della sua presenza. Nella sua arroganza, l'accusato si era forse dimenticato che la condizione di cui godeva era sacra e che il prostituirsi in un altro mondo, il Quinto soprattutto, dove vivevano una moltitudine di anime prave, non era un peccato che macchiava soltanto lui, ma coinvolgeva e lordava tutta la sua specie? Era partito puro da quel dominio e aveva osato farvi ritorno immondo e corrotto, portando con sé una creatura del Quinto e confessando di sua spontanea volontà che si trattava di suo marito.

Pie si aspettava di dover subire dei rimproveri al ritorno, dato l'attaccamento della sua gente alle tradizioni; ma la veemenza di quella lista di accuse era davvero sorprendente. Il giudice, Culus'su'erai, era una donna d'età avanzata, piuttosto piccola di statura, che sedeva avvolta in abiti incolori come la sua pelle e ascoltava la litania delle accuse senza rivolgere mai lo sguardo verso l'imputato o verso l'accusatore. Quando Thes'reh'ot terminò la propria ricostruzione dei fatti, il giudice offrì al mystif la possibilità di difendersi, e Pie fece quanto poté.

"Ammetto di avere commesso numerosi errori," disse. "Non ultimo, l'aver lasciato la mia famiglia e la mia gente, che era anch'essa la mia famiglia, senza dire dove intendevo andare e perché. Ma il motivo per cui l'ho fatto è semplice: non lo sapevo. Pensavo che sarei tornato in capo a un anno o poco più. Pensavo che sarebbe stato bello tornare e avere tante cose da raccontare. Ora sono tornato ma non ho trovato nessuno cui raccontare le mie avventure."

"Che cosa ti ha spinto ad andare nel Quinto?" chiese Culus.

"Un altro errore," rispose Pie. "Sono andato a Patashoqua dove ho conosciuto un teurgo che si è offerto di condurmi nel Quinto. Solo per fare un giro. Saremmo tornati in giornata, mi disse. Un giorno! Ho pensato che fosse un'idea fantastica. Avrei potuto tornare a casa dopo aver fatto una passeggiata nel Quinto Dominio. Allora l'ho pagato..."

"Come?" chiese Thes'reh'ot.

"In contanti. E poi gli ho fatto alcuni piccoli favori, ma non mi sono prostituito, se è questo cui vuoi alludere... forse, se lo avessi fatto, lui avrebbe mantenuto le promesse. Invece, con i suoi rituali non ha fatto altro che scaraventarmi nell'In Ovo."

"E per quanto tempo ci sei rimasto?" domandò Culus'su'erai.

"Non lo so," rispose il mystif. "La sofferenza che ho incontrato lì sembrava infinita e insopportabile, ma forse il tutto è durato solo pochi giorni."

Thes'reh'ot fece una smorfia. "È colpa sua se ha dovuto sopportare tali sofferenze, vostro onore. Ma è rilevante?"

"Probabilmente no," disse Culus'su'erai. "Ma tu sei stato tratto in salvo dall'In Ovo da un Maestro del Quinto, giusto?"

"Sì, vostro onore, si chiamava Sartori. Era il rappresentante del Quinto nel Sinodo istituito per la Riconciliazione."

"E tu sei rimasto al suo servizio?"

"Sì."

"Cosa facevi?"

"Qualsiasi cosa lui mi chiedesse. Ero il suo famiglio."

Thes'reh'ot fece un verso di disgusto, quando udì queste parole. Una reazione assolutamente spontanea, pensò Pie. Doveva essere davvero strabiliato all'idea che uno della sua tribù fosse assoggettato alla volontà di un homo sapiens.

"Sartori, secondo te, era un uomo buono?" chiese Culus a Pie.

"Era il solito paradosso. Compassionevole quando meno te lo aspetti. Crudele alla stessa maniera imprevedibile. Aveva un ego straordinario, ma non credo che altrimenti avrebbe potuto sopportare la responsabilità della Riconciliazione."

"È stato crudele con te?" chiese Culus.

"Prego?"

"Non hai capito la domanda?"

"Sì, ma non la sua pertinenza al dibattimento."

Culus bofonchiò con aria di disapprovazione. "Questa corte potrà sembrarti molto limitata quanto a cerimoniale," disse. "E i suoi membri un po' male in arnese, ma l'autorità di entrambi rimane immutata. Hai capito, mystif? Quando io pongo una domanda, mi aspetto che tu risponda prontamente e in tutta sincerità."

Pie mormorò alcune frasi di scusa.

"Allora..." riprese Culus. "Ripeterò la domanda. Sartori è stato crudele nei tuoi confronti?"

"Talvolta," rispose Pie.

"E adesso rispondi a quest'altra domanda. Quando la Riconciliazione è fallita, perché non hai abbandonato la compagnia del tuo Maestro e non sei ritornato nel tuo Dominio di origine?"

"Sartori mi ha evocato e sottratto all'In Ovo legandomi a sé. Io non avevo alcun potere."

"Molto improbabile," osservò Thes'reh'ot. "Vorresti farci credere..."

"Non mi pare di averti sentito chiedere l'autorizzazione a interrogare l'accusato," intervenne Culus.

"No, vostro onore."

"Chiedi l'autorizzazione?"

"Sì, vostro onore."

"Negata," rispose secca Culus, riportando lo sguardo su Pie. "Io penso che tu abbia imparato molto nel Quinto Dominio, mystif," aggiunse. "Cose che ti hanno peggiorato. Sei arrogante. Sei malizioso. E probabilmente sei crudele come il tuo Maestro. Ma io non credo che tu sia una spia. Forse sei qualcosa di peggio. Sei un pazzo. Hai voltato le spalle alla gente che ti amava e ti sei asservito a un uomo responsabile della morte di tante anime innocenti in tutta l'Imagica. Ma credo che Thes'reh'ot abbia qualcosa da dire, non è vero? Parla, prima che io pronunci la mia sentenza."

"Volevo solo precisare che il mystif non è accusato in questa sede solo di spionaggio, vostro onore. Negando alla propria gente i benefici che gli venivano dalla sua nascita, ha commesso un crimine molto grave nei nostri confronti."

"Non ci sono dubbi su questo," disse Culus. "E mi disgusta vedere una creatura così corrotta, soprattutto se penso che una volta era assolutamente perfetta. Ma vorrei ricordarti, Thes'reh'ot, che siamo rimasti in pochi. La tribù si è quasi estinta. E questo mystif è l'ultimo della sua dinastia."

"L'ultimo?" chiese Pie.

"Sì, l'ultimo," ribatté Culus in tono stizzito. "Mentre tu te la spassavi nel Quinto Dominio, la nostra gente è stata sistematicamente decimata. Ora siamo meno di cinquanta anime, in città. Gli altri sono morti o dispersi. La tua dinastia è stata distrutta, Pie'oh'pah. La tua famiglia si è estinta, vittima degli assassini o del dolore." Il mystif si coprì il viso con le mani, ma Culus non gli risparmiò il resto della storia. "Altri due mystif erano sopravvissuti alle epurazioni dell'Autarca," continuò. "Questo fino a un anno fa. Uno fu ucciso qui nel ciancioli, mentre curava un bambino. L'altro è fuggito nel deserto dove ci sono i Dearth, al confine con il Primo, contando sul fatto che alle truppe dell'Autarca non piace andare così vicino alla Dissoluzione, ma è stato catturato prima che riuscisse a raggiungere le tende. Lo hanno riportato indietro e l'hanno impiccato ai nostri cancelli." Si alzò dalla sedia e si avvicinò a Pie, che adesso piangeva visibilmente. "Perciò vedi, forse hai fatto la cosà giusta, per le ragioni sbagliate. Se fossi rimasto qui, probabilmente ora saresti sottoterra..."

"Obiezione, vostro onore!" esclamò Thes'reh'ot.

"Che cosa vorresti che facessi?" continuò Culus. "Che aggiungessi il sangue di questo pazzo al mare di sangue che già è stato versato? No, meglio volgere a nostro vantaggio la sua corruzione." Pie la guardava confuso. "Forse finora siamo stati troppo puri. Troppo prevedibili. I nostri stratagemmi sono stati scoperti. I nostri complotti sono stati facilmente sventati. Ma tu vieni da un altro mondo, mystif, e questo ti rende potente." Culus si fermò per tirare il fiato, poi riprese: "Questa è la mia sentenza. Prendi chi vuoi tra i superstiti della nostra gente e usa pure le bassezze che hai appreso per uccidere il nostro nemico. Se nessuno viene con te, vai da solo, ma non tornare, mystif, finché l'Autarca non sarà morto."

Thes'reh'ot scoppiò in una risata che riecheggiò in tutta la sala. "Perfetto!" disse. "Perfetto!"

"Sono contenta che la mia sentenza ti diverta," aggiunse Culus. "Ora vattene, Thes'reh'ot." Thes'reh'ot accennò un cenno di protesta, ma Culus ripeté con decisione: "Ho detto: vattene!"

Il pubblico ministero rimase colpito da quel tono perentorio e non poté far altro che ritirarsi in silenzio. Il riso scomparve dal suo volto, fece un inchino formale, pronunciò qualche fredda parola di commiato e lasciò la stanza. Culus lo guardò andarsene.

"Siamo diventati tutti crudeli. Tu in un modo, noi nel nostro." Guardò in viso Pie'oh'pah. "Sai perché rideva, mystif?"

"Perché pensa che la tua sentenza sia una condanna a morte cui hai dato un altro nome?" azzardò Pie.

"Esattamente. E, chissà, forse ha anche ragione. Ma questa potrebbe essere l'ultima notte del Dominio e le ultime cose, stanotte, avranno un potere che mai hanno avuto prima."

"E io sono una di queste ultime cose."

"Sì, infatti."

Il mystif annuì con il capo. "Capisco e credo che sia anche giusto," aggiunse.

"Bene," disse Culus. Sebbene il processo fosse terminato, nessuno si muoveva. "Hai qualche domanda da fare?" chiese il giudice.

"Sì."

"Allora è meglio che tu lo faccia subito."

"Sai per caso se uno sciamano di nome Arae'ke'gei è ancora vivo?"

Culus fece un sorriso. "Mi chiedevo quando ci saresti arrivato," disse. "Era uno dei sopravvissuti della Riconciliazione, non è vero?"